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Libri – Dogville. Della mancata redenzione

Pubblicato il 20 maggio 2009 da Marco Di Cesare


Libri – Dogville. Della mancata redenzione

Comincia con una frase di Friedrich Nietzsche, tratta da La volontà di potenza («Affinché l’uomo possa avere rispetto di sé, deve essere capace di diventare anche malvagio»), la dissertazione del giovane studioso Alessandro Alfieri, che ha compiuto un’analisi sul geniale capolavoro di Lars von Trier scrivendo un libricino di un centinaio di pagine dove lo studio dell’oggetto-film lascia spazio a un discorso che cerca un’ampiezza diversa. Difatti l’autore, fin dalla primissima pagina della breve introduzione, afferma che «Il presente saggio non vuole essere un testo di teoria cinematografica, tanto meno un’analisi tecnica di interpretazione del testo filmico. Per questo motivo, il saggio non si rivolge a un pubblico specializzato in studi cinematografici. Questo scritto è in realtà un saggio filosofico».
Il risultato di tale approccio è un volume che parla di un film che fa dell’atto del togliere il suo aspetto principale, in modo dissonante rispetto alla nostra epoca e capace di interrogarsi sul significato della parola ’uomo’, allo stesso tempo osservandola dal punto di vista politico e da quello metafisico e trascendentale, riproponendo così il percorso più volte intrapreso dal cineasta danese. Il quale ha qui abolito la materialità del mondo - di certo fin dove possibile - realizzando un’opera che compie una violenza sullo stesso cinema, ponendosi contro di esso, generando uno choc che è tipico delle forme d’arte che invitano lo spettatore a pensare, ma senza che questi possa chiudere il circolo della comunicazione attraverso una risposta univoca e conclusiva.
Di importanza fondamentale è il primo dei quattro capitoli, quando Alfieri confronterà il film con le teorie estetiche di Bertolt Brecht, drammaturgo troppo spesso accomunato a von Trier senza se e senza ma. Qui vengono esposte brevemente e con chiarezza le vicinanze e, soprattutto, le distanze che separano i due artisti, almeno nel caso specifico di Dogville. Perché, accanto all’interesse nutrito da entrambi nel pensare forma e contenuto in diretta connessione e reciprocità, esistono differenze neanche di poco conto, dal momento che l’effetto di distanziamento teorizzato nel ’teatro epico’ qui si manifesta soprattutto a livello scenografico e nell’introduzione dei titoli ai capitoli. Mentre, piuttosto, «in fin dei conti, Dogville è più ’aristotelico’ rispetto al teatro di Brecht», rimanendo classico e tradizionale sia nella struttura che nella recitazione. Soprattutto, quella dello scrittore tedesco è un’arte redenta che nutre fiducia nei confronti dell’uomo, come era lecito attendersi da ogni buon materialista positivista vissuto nella prima parte del secolo scorso. Oggi, invece, possiamo addentrarci con vigore nel nordico pessimismo di von Trier che dichiara il fallimento sia del Cristianesimo che di qualunque altra politica, realizzando un’opera capitale che non cerca alcuna redenzione: e proprio quest’ultimo sarà il pensiero centrale che farà da trait d’union nella lettura di pensieri densi che meritano attenzione, suscitando anche alcune interessanti sorprese.
Perché Alfieri con una certa chiarezza e con profondità di discorso esporrà varie tematiche, laterali ma mai di contorno rispetto al discorso principale, riprendendone più volte i fili e raggomitolandoli, ma senza renderli un groviglio inestricabile: dall’ospitalità alla colpa, dalla giustizia alla pena, dal mito greco delle Erinni e delle Euminidi alla disumanità di Cristo e al Dio ’umano’ del Vecchio Testamento, senza ovviamente dimenticarsi dell’Idiota principe Myškin di Dostoevskij. Pensieri che si appoggiano su Adorno e Ricoeur, Darrida e Beccaria, fino a Harold Bloom e ad altri intellettuali che vanno a comporre una bibliografia vasta e composita. Mentre la filmografia citata sfiora, tra gli altri, Il cattivo tenente, Il dolce domani e Le conseguenze dell’amore, soffermandosi poi maggiormente su La fontana della vergine e Kill Bill, a causa della loro esemplare lontananza dalla pellicola con Nicole Kidman. Perché il personaggio di Grace mette in scena una vendetta con pietà (fatto che secondo Alfieri giustamente non implica alcuna redenzione), anzi mostrando i limiti del suo stesso atto, ben diversamente da quanto si può ritrovare nel coevo esempio di Black Mamba, protagonista di una vendetta pianificata che va di pari passo con un certo godimento; ma anche Bergman è distante, visto che il suo Töre cercherà di purificare i propri peccati.
Mentre nessun dogvillese chiederà mai perdono, né mai potrà redimere le proprie colpe, circondato dal Silenzio di Dio: da ciò l’eliminazione totale di una cittadina che, attraverso la sua natura di apologo brechtiano, segnatamente rappresenta l’America e il mondo intero. Escludendo il cane, però, ossia l’unico essere che non ha colpe, in quanto animale e non umano, per cui incapace di avere coscienza di cosa siano la morale e la libertà. Rimasto invisibile fino al conclusivo istante dell’epilogo, Mosè apparirà beffardamente appena un attimo prima degli splendidi titoli di coda.
E, a nostro parere, sarà questo l’ultimo vagito creativo di un Autore che, da quel momento in poi, perderà la strada della sua arte: speriamo almeno che non sia per sempre.


Autore: Alessandro Alfieri
Titolo: Dogville. Della mancata redenzione
Editore: Caravaggio Editore
Collana: Dissertatio
Anno: 2008
Dati: (138 pp, tascabile formato 13x20, brossura)
Prezzo: 10.00 €
webinfo: Scheda sul sito Caravaggio Editore


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