Libri - Il battello del delirio

A guardare la foto di George R. R. Martin ti viene da pensare che non ci starebbe male in un film come Lo squalo.
Lo guardi e ti fanno simpatia quel berretto da pescatore calato sulla fronte larga incorniciata (si indovina) da radi capelli corti, quella barba bianca, lunga e vaporosa e quel viso rubicondo, ma deciso.
Gli occhi, appena esaltati da un paio d’occhiali non spessi e con montatura leggera, ti sembrano quelli di chi è abituato a guardare verso l’orizzonte, su quell’infida acqua di fiume che i vecchi battellieri dovevano imparare a leggere come un libro.
Che uno così ti scriva un romanzo ambientato su un fiume, con i vecchi battelli a ruota poppiera che correvano sulle acque evitando con maestria tutte le secche, non ti sorprende più di tanto. Del resto queste storie gliele indovini sulle labbra anche solo a guardarlo in foto e non fai fatica ad immaginarlo in un vecchio bar portuense ad alzare il gomito narrando vicende d’altri tempi tra i fumi dei sigari e le nebbie dell’alcool. Lo vedi bene che quell’odore di legno corrotto dall’acqua gli sta attaccato addosso come una pulce al suo cane. E non ti stupisce che ti descriva con tanta minuzia il calore cocente delle caldaie di un’imbarcazione e il piacere di stare al timone quando il fiume è una tavola blu da solcare pigramente. La descrizione, per lui, non è mai semplice atmosfera, ma parte integrante del narrato, cellula pulsante e viva dell’edificio romanzesco. Così pagine e pagine del racconto si avventurano in minuzie sconosciute ai più: i barili di lardo caricati a bordo per aumentare, bruciando, la velocità dei battelli, lo scoppiettio del fuoco che varia a seconda del tipo di legno usato come combustibile e le increspature sulla superficie del fiume che ogni timoniere conosce come le sue tasche.
Sono le pagine più belle de Il battello del delirio, non solo perché ti raccontano d’altri mondi e di mestieri ormai scomparsi, ma perché ti avvicinano al vissuto dei personaggi, ti fanno entrare nelle loro vite fatte, fino a che non inizia l’intreccio vero e proprio, di acqua e fango, di barche e porti, di gare sul fiume tra battelli ed ubriacature colossali.
Personaggi massicci, corpulenti, stagliati nel mito di un realismo mai troppo minuto. Piccoli avventurieri di un paese, l’America, ancora all’inizio della sua storia, ancora legato al bisogno della manodopera degli schiavi, ma già proteso verso un avvenire consumistico.
È in questo contesto che, a poche pagine dall’inizio, entrano in scena i vampiri e qui sta la prima e più importante delle sorprese di questo romanzo perché il vampiro è una figura archetipica che si associa alla Storia, al passato, ad un retaggio antico, mentre gli Stati Uniti degli anni della secessione sono un paese troppo giovane per poter dare i natali a creature così ataviche.
Già ai tempi di Le notti di Salem di Stephen King il Nosferatu poteva essere al più un migrante d’altri tempi, qualcuno che veniva di lontano sia in senso geografico che cronologico. George R. R. Martin riprende il modello kinghiano, ma lo fa con una consapevolezza diversa, cercando una chiave di lettura che sappia essere meno affabulatoria e più politica. E così, ad ogni pagina, lo scrittore sembra chiedersi cosa ci faccia un mostro tanto raffinato e crudele in un mondo che altro non è che un immenso cantiere in costruzione popolato da operai rozzi e sempre sporchi.
L’autore dà una prima risposta puramente narrativa a questo quesito apparentemente ozioso: poiché nel vecchio continente il vampiro è diventato uno spauracchio facile da distruggere quando è giorno, meglio andare nel nuovo mondo dove la minaccia è sconosciuta e le sparizioni delle eventuali vittime fanno poco scandalo.
Ma la motivazione più reale è un’altra e vive delle ragioni della poesia: il vampiro in fondo non è poi così diverso da questo nuovo mondo che vive sullo sfruttamento degli schiavi e non si fa scrupolo di uccidere pur di perpetuare la sua esistenza. La nascita di una nazione, come la sua morte, vive del cancro della sopraffazione, si nutre del sangue degli altri, trae vigore da iniquità come il confinamento degli indiani nelle riserve. E allora questi vampiri che chiudono nelle stanze gli uomini come fossero viveri da mettere in dispensa non sono tanto distanti dagli avventurieri in cerca di fortuna o dai proprietari delle piantagioni in cui muoiono gli uomini di colore. Anzi, forse una differenza c’è e sta nel fatto che il vampiro, a differenza del viso pallido in cerca di ricchezza, non ha scelta: agisce per placare l’insopprimibile sete rossa che gli brucia nella gola e, quando attacca, sa essere seducente al punto di far anelare alla sua stessa vittima la morte.
A tutto questo si unisce, infine, lo sfondo religioso, la dimensione messianica che popola queste pagine con un senso profondo che più che a Twain fa pensare a Melville ed Hawthorne cantori estremi di un mondo ipocritamente puritano tentato sempre dall’estrema vertigine della natura selvaggia (che è anche quella che brilla negli occhi del vampiro), ma sempre pronto a ritornare ai propri riti e ai propri usi che sono infinitamente più mostruosi di quel diavolo che dovrebbero combattere.
Ed è in questi momenti che il romanzo, che cede un poco alla stanchezza solo nelle pagine del prefinale, sfiora la dimensione del piccolo capolavoro.
Autore: George R. R. Martin
Titolo: Il battello del delirio
Editore: Gargoyle books
Dati: 400 pp, copertina rigida
Anno: 2009
Prezzo: 18,00 €
webinfo: Scheda libro sul sito Gargoyle
