Libri - Il buio elettrico. Il cinema e la sfida del Novecento

Il cinema inteso come catalizzatore della modernità ed emblema di un’estetica alternativa, destinata a modificare in modo irreversibile la nostra visione dell’arte e del mondo, è il fulcro attorno a cui si coagulano le molteplici suggestioni offerte dal saggio di Liborio Termine, Il buio elettrico, edito tempo fa da Le Mani. Percorrendo di continuo il sottile crinale fra cinema e teatro, letteratura e pantomima, Termine torna alle radici dell’era cinematografica, per analizzare il complesso rapporto fra il cinema e le altre arti, rileggendo in chiave spesso inedita le prime teorizzazioni sui nuovi strumenti espressivi, e indagando il non facile rapporto fra il cinema e gli intellettuali del tempo, che vi si accostarono con un misto di curiosità e timore. Se agli occhi di Baudelaire, e poi di Benjamin, l’età contemporanea porta con sé la massificazione della fruizione artistica e la conseguente perdita di ogni forma di aura, è proprio il “sogno meccanico” (come lo definirono Veléry e Savino), nato nella terra di confine fra innovazione tecnica e intrattenimento clownesco, a rappresentare al meglio la rottura e la successiva ricostituzione di un differente campionario di simboli e di forme, capaci di farsi interpreti di un universo ormai demitologizzato, attraverso la creazione di nuove suggestioni e paradigmi narrativi.
La ritrosia dei letterati di fronte alla possibilità di avviare una proficua (e remunerativa) collaborazione con il cinema sembra derivare in parte da una naturale avversione al mercato, che si rintraccia in autori come Giovanni Verga o Luigi Pirandello, e, dall’altro, nella sfiducia verso una forma d’arte che necessita dell’ausilio di una serie di mezzi tecnici per esplicarsi (cui si aggiunge il comprensibile e giustificato timore di vedere stravolti i propri soggetti originali). Tuttavia, se questo atteggiamento è in generale assai comune fra gli intellettuali che, nei primi decenni del secolo, incapparono in qualche modo nella nascente industria cinematografica, altrettanto significativi sono gli scarti e le differenze di vedute che animarono le riflessioni di Verga, D’Annunzio, Pirandello o Brecht, alternativamente allettati o frustrati dalle lusinghe (e dai più o meno cortesi rifiuti) di produttori e registi.
Mentre Giovanni Verga, pur senza mai liberarsi da un mal celato scetticismo di fronte all’efficacia degli adattamenti cinematografici, rivela una sorprendente puntualità nell’analisi delle differenti esigenze espressive che il cinema impone, il vate Gabriele D’Annunzio, colto durante l’avventurosa gestazione di Cabiria (e poi sempre più impegnato in una serie di strampalati soggetti), oscilla fra ingenuità e scaltra consapevolezza dei possibili ritorni pubblicitari che la nuova arte sembra promettere.
Certamente più complesso e variegato è invece l’approccio di Luigi Pirandello, le cui riflessioni sul cinema si innestano sulla traccia dei temi ricorrenti nei suoi romanzi e nelle sue novelle (la maschera, la follia, la ricerca di verità, lo spaesamento, l’alienazione da se stessi e dalla propria immagine riflessa, la rivelazione), fino ad approdare a geniali trovate teoriche sul concetto di macchina e sul rapporto fra immagine e suono, cinema muto e cinema sonoro (verso il quale, almeno inizialmente, lo scrittore siciliano espresse una condanna senza appello). Nelle lettere di Pirandello, spesso intessute di amarezza e di senso di impotenza, le considerazioni di carattere estetico-letterario si fondono senza soluzione di continuità con quelle, di carattere assai più pragmatico, relative al trattamento filmico dei suoi soggetti, ai compensi, e perfino alla scelta di registi e attori (non di rado il suo coinvolgimento sembra dettato soprattutto dal desiderio di favorire la carriera dell’amata Marta Abba), fino all’ambigua partecipazione dello scrittore all’avventura fascista di Acciaio , il film girato nel 1933 nelle acciaierie di Terni da Walter Ruttmann. Nell’incrocio inestricabile fra arte e vita, persona e personaggio, Liborio Termine, in uno dei capitoli più affascinanti del suo saggio, fa poi emergere la figura di un altro intellettuale atipico, il fisico Ettore Majorana, la cui misteriosa vicenda (Majorana scomparve improvvisamente il 27 marzo 1938, per non fare mai più ritorno) è riletta in controluce a partire dal romanzo di Sciascia (La scomparsa di Majorana) e dalle opere pirandelliane (Uno, nessuno e centomila, Il Fu Mattia Pascal), in una sorta di processo osmotico fra immaginazione e realtà di cui ancora una volta il cinema, in quanto elemento modificatore della nostra percezione del mondo, è perfetta incarnazione.
Autore: Liborio Termine
Titolo: Il buio elettrico. Il cinema e la sfida del Novecento
Editore: Le mani
Dati: 312 pp, b/n
Prezzo: 16,00 €
Anno: 2008
webinfo: Scheda libro su sito Le Mani
