Libri - Il gotico Padano. Dialogo con Pupi Avati

Tanto si è detto e scritto sul cinema di Pupi Avati. Regista amato dal pubblico e, nella migliore delle ipotesi, ignorato dalla critica; autore di genere che di generi ne ha attraversati tanti. Molto, forse troppo, si è detto su un autore che è capace di produrre più di qualunque altro nella storia contemporanea del nostro cinema. Autore poliedrico, televisivo, cinematografico e produttore di se stesso, in un’idea di cinema molto più moderna di quanto, in molti, siano disposti a concedergli. Regista di genere sì, ma soprattutto di luogo, di origine e di Madre-Terra. Autore del passato, autobiografico quando meno te lo aspetti e in grado, al tempo stesso, di passare dal particolare all’universale, dal ricordo personale al sentire comune delle cose; capace di "sprovincializzare" i luoghi e le leggende contadine della sua terra d’origine per farli diventare misteriosi non-luoghi del terrore, al tempo stesso privi e pregni, di una forte identità. Collezionista di racconti, storie tramandate oralmente, tradizioni che si sono perse nel tempo e nell’ignoranza di generazioni troppo affascinate dall’ oggi per proteggere e rinnovare i giorni, da poco, trascorsi.
Questo è l’aspetto sul quale si concentrano Ruggero Adamovit e Claudio Bartolini che, nella stesura del libro edito da Le Mani Il gotico Padano. Dialogo con Pupi Avati, analizzano la produzione del regista a partire da un concetto che abitualmente si riserva al romanzo tardo-ottocentesco, ai racconti del terrore che scandalizzavano le signorine bene di una sempre più potente borghesia. Un’idea che ha caratterizzato la produzione di gradissimi autori della letteratura del XIX° secolo da Alessandro Manzoni (I promessi sposi, 1840) a Emily Brontë (Wuthering Heights, 1847). Il luogo e la memoria come personaggi determinanti, indistinguibili dai protagonisti del racconto: se la descrizione del palazzo dell’Innominato manzoniano si sostituisce a quella del personaggio vero e proprio, le caratteristiche architettoniche di Thrushcross Grange e Wuthering Heights fanno da contraltare al carattere dei protagonisti della vicenda narrata dalla giovane Brontë. Così il luogo diventa fondamentale narratore anche nel cinema di Avati, che lo utilizza in tutta la potenza visiva ed evocativa dell’ immagine cinematografica.
Il libro ripercorre, quindi la filmografia del regista, lavorando sui luoghi dell’azione più che sull’azione stessa; sulle radici contadine della racconto del terrore che già furono centrali in un aspetto del cinema di Mario Bava. Le origini come punto di partenza per raccontare l’irracontabile abisso delle perversioni umane. Un volume completo che getta una luce nuova sulla produzione di Avati; ponendola, di diritto, all’interno di un filone che pare essere inesauribile rigeneratore di se stesso, conservatore e divulgatore di racconti e ricordi che vengono da un passato recente e troppo facilmente ignorato. Uno sguardo originale non solo sul cinema avatiano, ma sul cinema horror italiano in generale; troppo spesso bistrattato perché fortemente legato ai luoghi della nostra penisola, all’infanzia dell’autore e alle sue personali paranoie. Pare invece che, parlando di paura, si debba mettere in gioco se stessi, il proprio passato e i propri ricordi, perché anche lo spettatore faccia lo stesso con i suoi e si senta coinvolto in quel favoloso gioco che è il cinema del terrore.
Autore: Ruggero Adamovit, Claudio Bartolini
Titolo: Il gotico Padano. Dialogo con Pupi Avati
Editore: Le Mani
Collana: Saggi
Dati: 248 pp, ill. colore
Prezzo: 15,00 €
Anno: 2010
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