Libri - La figura di cera

Nasce come seguito ideale di Il morso sul collo, La figura di cera di Riccardo D’Anna. I personaggi sono, infatti, gli stessi, ma il percorso chiuso del gesto letterario raveniano si apre qui ad una serialità che lo trasforma da discorso autoconcluso in un divertissment letterario assai colto.
Più del suo predecessore, La figura di cera è, di fatto, un giallo. Un giallo soprannaturale per di più. Ma bisogna stare attenti. Il vero enigma da risolvere non è tanto scoprire l’identità del mostro, quanto piuttosto comprendere le regole del gioco letterario che scorre sotto la sua semplice trama. Bisogna scavare sotto la superficie dell’intreccio, riportare a galla ciò che non si legge.
L’abilità non è quindi, leggere tra le righe, ma sotto di esse. E per far questo, forse, può essere utile cominciare dalla definizione dei luoghi del racconto, comprendere il modo in cui essi sono messi in parola e fatti oggetto di un vissuto che non rimanda solo alla letteratura, ma che ha probabilmente, anche motivi di carattere autobiografico. La grande differenza tra Il morso sul collo e La figura di cera sta, infatti, nelle direttive del viaggio. Unico, benché frastagliato per tutte le isole della Grecia, nel primo, molteplice nel secondo che parte dall’Inghilterra per spostarsi poi a Venezia e quindi a Berlino. Ma cominciamo.
Nel romanzo Venezia è l’instabilità. Comincia a prendere corpo tra sonno e veglia in un ricordo che è anche un sogno. Il ricordo è quello di Richard che aveva raccontato dell’impressione suscitatagli dalla visione del fenomeno dell’acqua alta. Il sogno, invece, è quello di Anthony che rivive come esperienza onirica lo stesso ricordo che gli era stato raccontato tempo prima. Sotto: la strada su cui si srotola un tappeto d’acqua, impalpabile e luminescente. Doppio rimosso che torna a galla, quindi. Benché sia la Venezia del periodo del carnevale, quella raccontata nel libro è una Venezia oleosa imparentata alle impressioni suscitate dalla lettura di Morte a Venezia: un’altra storia di fantasmi dove il bello greco ed ellenico è la meta distante dell’intellettuale che, quaggiù, si strugge d’un desiderio che lo sporca, lo porta nel mondo della prosa. Lo stesso percorso che Richard compiva in Il morso sul collo: dall’algido mondo universitario a quello del mito ancora vivo delle isole greche. Ma quella che per Mann era ricerca del bello, nato nello sforzo del romanziere che cuce parole con l’operosità del sarto, per Simon Raven era ricerca di una propria affermazione personale che passava anche per una precisa autoaffermazione sessuale.
Le piste stranamente si allargano. C’è D’Annunzio nella prosa veneziana di D’Anna. Non che prima mancasse, ma si perdeva un poco tra i dialoghi e le descrizioni razionali di una Londra passata al vaglio del romanzo gotico fatto di campate razionali che tentano di (com)prendere il mistero. Come una struttura in marmo che tenta di chiudere il buio. Invece, da poco prima della partenza per la città lagunare, la penna dello scrittore comincia a farsi più “scivolosa”. Verrebbe da pensare a Il fuoco per identità di ambientazione, ma del grande romanzo wagneriano c’è più la seconda parte, quella chiusa nelle case (e quella mozza fa da titolo appunto al capitolo veneziano) che non la prima ebbra di spirito dionisiaco e di esaltazioni simil nicciane. Del resto l’epigrafe stessa a tutto il libro viene da Il Notturno che fa parte del momento dannunziano più chiuso della malinconia, nel riserbo gustato dall’autore nel pieno possesso dei suoi mezzi. Un tono nostalgico e dolente che sta pure in certi passi dell’Alcyone e, appunto, nella seconda parte de Il Fuoco che ne è parente lato. Il riposo del guerriero, del Super uomo dopo che ha amato con ebbrezza d’arte. Sicché cominciano a sfuggire, nel razionalismo del romanzo alla Conan Doyle, piccoli segni di uno scrivere diverso: “ San Marco è un tessuto liso” si scrive ad un certo punto, come pure si parla di un’oscurità che “perdeva la sua scorza oleosa e smarriva la sua livida compattezza”. Pochi momenti di un prosare più morbido che cominciano in quel punto, verrebbe da pensare, solo perché l’autore ha solo adesso sufficiente confidenza nella grammatica del genere da potersi permettere brevi infrazioni. In realtà la scena riporta dalle profondità del subcosciente romanzesco altre impressioni che non sono solo quelle dell’acqua che si infiltra tra le pietre. Il sogno segue il primo attacco del vampiro. E l’attacco non passa, questa volta, per le strade della seduzione (anche se, per paradosso, questa volta il mostro è una donna fatale nella piena tradizione dannunziana), ma per quelle di una tensione al cupio dissolvi che ci mette a contatto con la parte più contratta e chiusa del nostro stesso essere. “La vita militare è una stanza spoglia che ognuno riempie come può” non è solo una frase che non ti aspetteresti in un romanzo di genere, ma anche il grimaldello con il quale il mostro sfonda la porta delle nostre misere difese. Il vuoto delle nostre coscienze è la porta aperta all’orrore che ci portiamo dentro. E noi siamo tanto più vulnerabili all’attacco del vampiro quanto più entriamo in contatto con quel vuoto che ci attira sempre irresistibilmente all’acqua. Quella del Tamigi, quella della laguna come pure quella dell’Egeo. Aschembach moriva, proprio in Morte a Venezia, suicida di peste guardando il mare. È quindi quasi normale che la prosa di D’Anna cominci a riempirsi d’acqua laddove la razionalità delle lampadine elettriche si fulmina (sempre ogni volta che il vampiro attacca). Il rimosso che torna a galla è, quindi, anche quello del romanzo che comincia a riflettere se stesso sul selciato improvvisamente allagato.
Ma le coincidenze cominciano a moltiplicarsi. Aschembach muore guardando il mare anche nell’immagine finale dell’omonimo capolavoro cinematografico viscontiano. Autore, quest’ultimo che avrebbe chiuso la sua carriera anche lui con D’Annunzio, ma quello de L’innocente, un romanzo minore come pure il film da esso tratto. E sempre nella Venezia viscontiana, ma quella di anni prima, quella di Senso, si sentiva Bruckner che, nel romanzo è invece colonna sonora del passaggio tedesco.
Berlino è città di rovine, quando gli investigatori dell’incubo vi mettono piede. Architetture talmente possenti che anche in rovina mantengono un sinistro splendore. Ci si entra dentro ed è come si fosse in un’acropoli. Del resto la cultura tedesca aveva sempre guardato al modello ellenico, seppur reinterpretato in chiave barbara. Ed al modello greco guardava anche D’Annunzio, non solo in Alcyone, ma anche ne Il fuoco che pure nasceva come omaggio a Wagner che per Venezia navigava nel romanzo che, alla fine, ospitava, tra le voci del coro, le notizie dalla sua morte a mo’ di chiusa. D’Annunzio ammirava Wagner, pur tenendolo in minor conto di un capitello del Partenone. Sicché il capitolo tedesco di La figura di cera ci pare il riflesso allo specchio del capitolo greco di Il morso sul collo. E mentre in quest’ultimo si scavava sotto la cultura greca per scovarvi mostruosità più antiche, in quello scavando sotto la superficie si portava alla luce l’acqua torbida del medioevo più sanguinario, vero punto di riferimento della barbarie nazista. Non a caso, durante la cerimonia satanica che conduce al sacrificio umano si sente la musica di Orff che, nella migliore delle ipotesi, aveva musicato i Catulla carmina e più per il sesso in essi contenuto che per la metrica.
Il viaggio non è, però, d’andata, ma di ritorno: Gli dei morenti, titolo del primo studio di Richard in Il morso sul collo, in tedesco si traduce Gotterdammerung che è il titolo della tetralogia di Wagner.
Anche a Berlino, comunque, il sottosuolo genera mostri e non porta solo sculture di teste d’annegato. Il viaggio, anch’esso aperto da un attacco del vampiro, questa volta più potente, apre all’ambiguità.
Bruckner si diceva è la colonna sonora del capitolo. Ma non il Bruckner della Sinfonia wagneriana che sarebbe il massimo che ci saremmo aspettati in un mondo ancora intriso di nazismo. Ma quello della Nona (numero beethoveniano in difetto: è un’opera incompiuta), quella che il compositore aveva dedicato con dolcissimo candore a “dem lieben Gott”, al “caro Dio”. La ascolta Loeb quando accoglie gli investigatori nella sua casa. E Piers la riconosce subito dimostrando buon gusto (per uno studente di un’università inglese è cosa notevole, ma non poi tanto, siamo noi italiani ad essere musicalmente analfabeti). E anche qui le coincidenze si accavallano. La Nona, conosciuta per trent’anni nella versione rimaneggiata da Lowe, fu data alle stampe nella sua versione filologica solo alla fine del 1932, a pochi mesi dalla presa al potere di Hitler. Strano che un momento di così intimo rapporto col divino conviva con l’avanzata del nazismo. Ma non poi tanto quando si pensa che la cerimonia satanica che si svolge nel sottosuolo, sta ad un passo dall’immagine più incantata del romanzo, quella in cui un bambino scopre, con lo stesso candore bruckneriano, la magia della neve che cade dal cielo. Anche qui ad un passo dall’ambiguità. Più che neve nevischio, quasi acquerugiola. Cade soffice, ma è acqua. Sicché sopra il manto della strada c’è la dolcezza, sotto l’orrore. Come la musica di Bruckner che ha le profondità di un corale, ma odora di Wagner.
Del resto, nel girone delle ambiguità ci colpisce un’altra coincidenza. Il primo barlume dell’indole crudele di Richard ne Il morso sul collo fu percepito da Anthony in un atto di gentilezza. Fu quando il giovane studente prese le difese di un ragazzo ebreo dalle angherie di un bullo che lo prendeva in giro proprio in quanto ebreo. Segno questo di strana resistenza di certo antisemitismo in contesto inglese anche ad un passo dalla Shoah. Qui, nella Berlino di D’Anna, la Shoah è il continuo fuori testo dei riti crudeli partoriti dal misticismo nazista. Ancora una volta il sequel rivela la sua dimensione speculare rispetto al predecessore.
Ma la specularità è non solo moltiplicazione, ma anche inversione. Simon Raven concepiva il suo romanzo come racconto sull’impalpabile crudeltà dei rapporti umani. I vampiri non sono solo quelli che succhiano il sangue, ma soprattutto son quelli che vivono dell’altrui personalità, che la controllano, che ne influenzano le possibilità di sviluppo. Goodrich, ad esempio, era figura orrorifica non perché flirtasse con il soprannaturale, ma perché divorava la libertà degli altri. D’Anna ne fa un vampiro vero (o quasi) e, per questo, a confronto con Raven, lo banalizza. Se Il morso sul collo era un romanzo assai poco dominato dall’azione e tutto intriso del non detto che lega le persone portandole a vampirizzarsi reciprocamente, La figura di cera è, per converso, un romanzo in cui si racconta molto, l’azione è onnipresente. Ci sono inseguimenti, indagini, fughe rocambolesche. Il vuoto raveniano si riempie di genere. Ma poi questo genere, come abbiamo visto, si infiltra di “altro”. E sta qui l’implicita bellezza di un romanzo che porta la maschera del genere, ma ha la sostanza di una vera e propria oscura epifania.
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Intervista a Riccardo D’Anna
Autore: Riccardo D’Anna
Titolo: La figura di cera
Editore: Gargoyle Books
Dati: 200 pp, copertina brossura
Anno: 2011
Prezzo: 13,50 €
webinfo: Scheda libro sul sito Gargoyle
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