Il breve scritto di Jacques Loiseleux riflette nella forma la duplice funzione della luce nel cinema: da un lato la sua necessità tecnica, dall’altro la sua essenza simbolica che diviene, in alcuni casi, pura poesia. Il lessico adottato dall’autore, membro dell’Association Francaise des Directeurs-photo, si fonda sul rigore di una esatta terminologia scientifica, ma non dimentica che la luce è anche veicolo di emozioni, concedendosi suggestive digressioni letterarie; queste dignitose velleità rivelano il tentativo di restituire con il linguaggio lo spirito metaforico della fotografia nella settima arte, ovvero, le sue capacità referenziali nelle sfere emozionali, psicologiche e culturali del film.

Il risultato complessivo è, a nostro giudizio, deludente: il testo è privo di una limpida "identità" rimanendo a metà strada tra la manualistica, la storia, la didattica e l’esperienza autobiografica; si procede a fatica nella lettura, appesantita da ingiustificati salti cronologici nella descrizione dell’evoluzione tecnica del mezzo cinematografico. Del tutto assente una prospettiva storica: sepolti dall’ "orrore dell’oblio" molte pellicole ed altrettanti autori che hanno utilizzato l’arte della luce a fini squisitamente espressivi - impossibile non citare il Barry Lyndon di Kubrick, solo per fare un esempio - . La conseguenza dell’accumulo di queste lacune storiche comporta un improbabile utilizzo del testo in ambienti accademici o professionali, ma le voragini aneddotiche, se gli intenti primari erano di natura autobiografica - non possono non scontentare anche gli appassionati o i semplici curiosi: sporadiche e a tratti noiose le testimonianze lavorative dell’autore.

Il vero pregio dell’opera consiste nell’impaginazione dell’interessante materiale fotografico che arricchisce, con inedite immagini, il libero scorrere di un libro strutturalmente deficitario e, in ultima analisi, circoscritto alla comprensione e allo stimolo di una cerchia ristretta di addetti ai lavori.