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Libri - Lo sguardo e l’evento

Pubblicato il 25 gennaio 2009 da Alessandro Izzi


Libri - Lo sguardo e l'evento

Il territorio non è la mappa che lo rappresenta. La cartina geografica con la quale ci orientiamo quando viaggiamo, l’atlante stradale che consultiamo quando ci sentiamo persi hanno poco a che vedere con gli ambienti che attraversiamo. La silouette della Fontana di Trevi che campeggia nel fitto intrico di linee che rappresentano le strade di Roma ha un rapporto incerto con la fisicità delle sculture, con gli zampilli d’acqua e con le monetine gettate dai turisti coi loro incerti ed ambigui baluginii a pelo d’acqua.
È come per il pirata a caccia di un malloppo: sa bene che la X segnata sulla mappa indica il luogo in cui si trova il tesoro. Ma sa altrettanto bene che la X non è il tesoro. Perché la X non la puoi spendere, non la puoi usare, non la puoi nemmeno toccare dato che è poco più di uno sbaffo d’inchiostro su un pezzo di pergamena.
All’inizio della storia del cinema, quando i Lumiere puntavano la macchina da presa su signori che giocavano a carte fumando sigari, la differenza tra realtà ed immagine era un dato di fatto solo parzialmente posto in discussione. Secoli di dipinti e di sculture non avevano eliminato il muro che separava lo sguardo dall’evento. Ognuno sapeva bene che l’Infanta di Spagna era una persona viva e vera che parlava e che mangiava, che respirava e pensava. Se lei era l’evento, la tela era niente più che lo sguardo di Goya puntato su di lei.
Sicché nel 1895, alle prime proiezioni dei Lumiere, faceva meraviglia vedere il fumo alzarsi dai sigari ed uscire dalle bocche dei giocatori di carte. Sembravano veri i giocatori (figure finalmente immerse nella durata e nel movimento) e faceva scalpore quel fumo che aveva la stessa sostanza dei fantasmi sognati di notte. Il bianco e nero e l’assenza di suoni (fatto salvo quello sferragliante della macchina da proiezione) staccavano ancora il mondo dalla sua rappresentazione, ma non si può negare che mai era capitato che la mappa somigliasse così tanto al suo territorio.
“Sembra vero” esclamavano i primi spettatori e fuggivano di corsa (così almeno ci tramanda la leggenda) davanti alle immagini del treno in corsa quasi che questo potesse davvero uscire dallo schermo ed investirli in pieno.

Tutto il contrario di quel pubblico involontario dell’attentato alle Torri gemelle nel 2001 che seguì in diretta, in televisione, il crollo delle certezze del mondo occidentale.
Per le strade, sui blog, su Internet, nelle conversazioni telefoniche della gente comune, l’incredulità di fronte a tanto orrore si condensava nella frase, divenuta presto slogan “sembra un film”.
Ma “sembra un film” non certifica soltanto il bisogno di mediare qualcosa di incredibile (l’attentato terroristico) mediante categorie più rassicuranti (il blockbuster catastrofico con cui il mondo tutto ha amato intrattenersi sin dall’inizio del cinema narrativo). “Sembra un film” certifica piuttosto, stando alle illuminanti parole di Marco Dinoi in Lo sguardo e l’evento (edito da Le lettere), l’irreversibilità di un fenomeno percettivo la cui portata è ancora incalcolabile. Quella precisa distinzione che l’uomo d’inizio novecento poteva ancora compiere tra sguardo ed evento, tra mappa e territorio, si è resa incerta e labile. Oggi come oggi le due categorie sono rese confuse da un’abitudine all’audiovisivo che ha creato nuovi valori e nuove scale per misurarli.

In realtà Internet e TV (prima ancora del cinema che è posto mediaticamente a margine di questo fenomeno complesso, nella posizione di scomodo testimone e, spesso, illuminato precognitore come si evince dalla seconda parte del volume) non sono più, per il pubblico medio, mappe di un territorio, ma un vero e proprio nuovo habitat, un nuovo spazio per un safari virtuale. Sulla rete, l’utente, non è fermo, ma naviga, si muove in un fitto intrico di immagini e segni grafici che non sono più meri sguardi o forme di rappresentazione, ma assurgono alla categoria di eventi.
Facebook, Youtube, i filmini che i ragazzi delle scuole scaricano dai telefonini coi loro atti di bullismo segnano da una parte la perdita sempre più grande di una qualsiasi forma di presa col reale così come lo intendevamo e, dall’altra, definiscono gli inizi di una nuova era fondata sull’impressione dell’assoluta reperibilità di tutto (basta andare su Google o su Wikypedia). Le nuove generazioni sono, quindi, gli eroici esploratori di nuovi territori ora che il globo terracqueo è definitivamente tutto conosciuto? Non è facile rispondere a questa domanda. Ed ogni tentativo ci porta di fronte a nuovi quesiti ancora più difficili.

Certo è che l’attentato alle torri gemelle ha aperto nuove voragini conoscitive ad un fenomeno altrimenti placido nella sua sostituzione ultracorpesca di valori e pensieri. Il crollo dei grattacieli, seguito in diretta dall’intera collettività consapevole, per la prima volta, di essere davvero in assoluta sintonia col mondo (tutti, nel mondo occidentale almeno, stavano vedendo la stessa cosa) ha segnato un brusco rientro di realtà in un mondo aduso alla falsità dei reality show. Le torri crollavano per davvero. La mappa, fedelissima nella trasposizione dell’evento, non poteva sostituirsi al territorio. Su questa consapevolezza prende le mosse tutta la prima parte del saggio (La realtà, il suo ritorno, l’eccesso) che mette al centro proprio questa dimensione di ritorno di realtà in un mondo anestetizzato dalle immagini. Più avanti, in Drammaturgia dell’evento, l’attenzione si sposta sul bisogno provato immediatamente da tutti di estrarre l’eventualità dall’evento, di riportare l’orrore del reale nei limiti di una rappresentabilità. Il Vero è ripiegato nello spazio del film, il cinema riprende ciò che era stato incredibilmente in grado di preconizzare (non a caso in copertina c’è la scena del crollo dei grattacieli dal film Fight club: un’anticipazione di ciò che si sarebbe visto in televisione anni dopo). Doti precognitive che si volgono al passato nel capitolo intitolato La scena della memoria dove i riferimenti all’olocausto diventano d’obbligo, ma non sono i soli. Chiude il volume un capitolo (Sguardi) in cui l’analisi filmica diventa preponderante ed affascinante.

Esce postumo questo libro di Marco Dinoi. Dalla sua lettura, non facile data l’estrema densità dell’argomento, capiamo che l’Italia ha perso, purtroppo, un intellettuale di calibro. Sono poche, infatti, non solo in ambito accademico, le persone capaci di raccogliere in una sintesi acuta le riflessioni sull’immagine da Daney a Sontag, da Virilio a Baudrillard, da Heidegger a Deleuze incastrandole in una precisa visione del mondo. Dinoi ci stava riuscendo in un libro che, con il suo infinito interrogarsi, poteva davvero aprire nuove porte al dibattito. Speriamo, quindi, che il suo lavoro certosino venga raccolto e rilanciato in una riflessione di cui il nostro mondo ha urgente bisogno.


Autore: Marco Dinoi
Titolo: Lo sguardo e l’evento
Editore: Le lettere
Dati: 324 pp, copertina morbida, illustrazioni in bianco e nero
Anno: 2008
Prezzo: 25,00 Euro
webinfo: Sito editore


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