Libri - Luchino Visconti e il suo Tempo

Luchino Visconti ha attraversato il Novecento lasciando impressa la sua impronta autorevole e sempre immediatamente riconoscibile in ogni arte frequentata: al cinema e, a teatro, nella prosa e nella lirica. Dalla sua prolungata attività registica, l’Archivio Visconti ha tratto una magnifica e ricchissima mostra, allestita all’Auditorium di Roma durante la prima edizione della Festa del Cinema, proprio nell’anno del centenario della nascita dell’autore. Alla mostra stessa ha fatto seguito la pubblicazione del magnifico testo della Electa, corredato da una profusioni di scatti d’epoca che ci riconsegnano una prospettiva anche e immediatamente visuale del lavoro corposo del regista. Le leggende sull’incredibile perfezionismo preteso dai vari collaboratori trovano un corrispettivo innegabile nel ricco apparato iconografico del volume, in cui lo stesso autore mostra di volta in volta ai vari interpreti, il puntuale gesto da replicare per tratteggiare una particolare sfumatura, un preciso stato d’animo di un certo personaggio.
A donare profondità alle immagini, intervengono le parole affidate a tre notevoli saggi, tre penne doc che hanno vissuto, respirato e fatto parte della medesima atmosfera e possono riconsegnarci Visconti qual era effettivamente, poiché la polvere degli anni ha in parte macchiato la sua figura. Il primo, brillante saggio di taglio eminentemente cronachistico è opera di Tullio Kezich, il quale, a partire dall’aneddoto, ricostruisce l’arcipelago cinematografico viscontiano, prendendo le mosse dal presupposto donniano secondo cui ‘nessun’uomo è un’isola’ e il ‘solitario’ Visconti men che meno. Il secondo pezzo, di Elio Testoni, ripercorre l’altrettanto lunga carriera teatrale di Visconti: dai primi allestimenti veristici a quelli ‘vellutati’ degli ultimi anni. I suoi primi spettacoli applauditi, figurativi, vividi, palpitanti sapevano imporsi per la recitazione fresca, meno impostata e rigida che in passato. Alti e bassi ricorrenti, ancor più che al cinema, si susseguono nel suo percorso sulle scene: dal tripudio critico dell’allestimento di A Porte Chiuse da Sartre ai gravi problemi di censura dell’Adamo di Achard, incentrato su tematiche omosessuali. La censura preventiva ed effettiva propugnata dalla DC di quegli anni si fondava sui valori intoccabili della famiglia e del buon costume: non dobbiamo fare troppi sforzi d’immaginazione dal nostro scorcio – ahinoi privilegiato – d’osservatori di nuovo millennio per figurarci un contesto socio-culturale simile.
Visconti è uno che ha preso in mano il teatro e ne ha rivoluzionato le sorti, riammodernando la prassi scenica così come aveva fatto al cinema grazie ad Ossessione, epocale film di rottura ad introdurre ed avviare la svolta neorealista del cinema italiano (e mondiale). Anche a teatro, dicevamo, il regista è il responsabile dell’estensione del repertorio anche a testi francesi o statunitensi, o alle tematiche scabrose, aspetti entrambi censurati durante il periodo fascista e che facevano ancora pesare la loro influenza. Ma nessun genere teatrale aveva bisogno di maggior rinnovamento rispetto alla lirica. Visconti aveva avuto il privilegio di venir educato alla musica proprio negli anni di Toscanini alla Scala: niente di meglio per un giovanissimo spettatore con la preparazione musicale che egli poteva vantare (fin da ragazzo aveva seguito lezioni di violoncello).
Qui interviene la testimonianza di spettatore firmata da Franco Serpa, il più breve dei tre interventi, ad illuminare non solo il lavoro operistico del regista, ma parallelamente, anche quello nel teatro di prosa e nel cinema. Esistono, difatti, tracce testimoniali del suo amore viscerale per il melodramma italiano in diversi film: i dilettanti che cantano arie operistiche nell’osteria di Ossessione, l’incipit di Bellissima, avviato dal coro dell’Elisir d’Amore, il celeberrimo avvio di Senso alla Fenice, dove si mette in scena Il Trovatore. Nelle pose, nei gesti teatrali, nei comportamenti di molti suoi personaggi cinematografici, anche nella prima fase verista, è dato rinvenire una medesima ispirazione melodrammatica. Tra le varie regie liriche viscontiane, sono rimaste particolarmente vivide nella memoria di chi ha potuto apprezzarle, e dello stesso Serpa, quelle con la Callas protagonista.
Ma se i film restano e vengono continuamente riproposti (o quantomeno dovrebbero… ), particolarmente preziose diventano allora le illustrazioni degli spettacoli teatrali.
Come per cinema, anche al teatro viscontiano si rinfaccia la grave colpa di aver abiurato le precedenti spinte riformatrici per abbracciare una raffinatezza estetizzante della messa in scena, un ripiegamento entro canoni stilistici nostalgici a detrimento dei problemi della contemporaneità. Come se la seconda parte di carriera, quella decadente, avesse nuociuto alla fama del Nostro non solo al cinema, concorrendo a segnare il ridimensionamento della levatura del personaggio. E allora diventa di fondamentale importanza proprio l’operazione di ricollocazione del personaggio Visconti, imprescindibile per lui come per nessun’altro.
Il regista milanese viene sempre paragonato e fatto interagire con gli altri grandi protagonisti di teatro e cinema. Nel primo caso emerge la sua rivalità con il contemporaneo Strehler, fatta di reciproca stima, ma di irriducibili diversità di vedute nel campo della regia teatrale. Nel ventennio 1950-1970, i due hanno saputo spingere fuori il teatro dal pantano fascista e indirizzarlo verso la sua fase moderna più e meglio di chiunque altro. L’uno omaggia l’altro ripetutamente, ma entrambi, naturalmente, pensano di fare di più e di meglio per l’arte scenica rispetto al rivale (il primo al Piccolo di Milano, il secondo al Quirino di Roma). Nell’ultimo arco di carriera di Visconti, quella ormai fuori dalla sua fase sovvertitrice, cominciano ad emergere i nomi di Ronconi e di altri innovatori del repertorio nazionale (e non solo), come Carmelo Bene e Dario Fo. Ma qui, ogni paragone diventa impensabile. Al cinema, Visconti è invece paragonato agli altri maestri neorealisti, Rossellini e De Sica, ma anche al diametralmente opposto – sotto ogni aspetto, dall’ascendenza popolare agli interessi più terreni e carnali – Fellini.
Sempre fedele a se stesso, mai piattamente contiguo alle direttive del partito, cui pure aderisce, Visconti percorre un coerente sentiero parallelo, al cinema e a teatro. Ad una prima attività fortemente innovativa, rivoluzionaria perfino, segue un necessario tradimento di quelle stesse prime istanze, per giungere a un nostalgico distacco dalla realtà, un ripiegamento in un’epoca in cui la cultura aveva ben altra voce nell’indirizzare il percorso esistenziale delle persone. In tal senso, il dittico Ludwig - Gruppo di Famiglia in un Interno si impone per la sua perfetta adesione al pensiero di Visconti, fatto proprio dai suoi protagonisti, considerati folli da un mondo che, tuttavia, viene dipinto come particolarmente odioso, tutto intento in sforzi bellici o a perpetrare la violenza fascista e borghese. Ma che, seppur in termini critici, Visconti ha sempre continuato a trattare.
Tra le chicche assolute contenute nel libro segnaliamo una lettera scritta di proprio pugno da Jack Nicholson al Maestro: dopo la fresca visione di Morte a Venezia al festival di Cannes, l’attore americano si proclama fan entusiasta di quella pellicola e offre la sua candidatura spontanea per il ruolo di Ludwig, poi andato ad Helmut Berger.
Autore: Caterina d’Amico de Carvalho (a cura di)
Titolo: Luchino Visconti e il suo tempo
Editore: Electa Mondadori
Dati: Pagine 254
Prezzo: 30 €
webinfo: Sito Electa
