Libri - Manoel de Oliveira

“L’immagine è una cosa molto concreta, ma serve a mostrare cose immateriali.” dice Manoel de Oliveira, per poi proseguire: “Si vedono dei fantasmi […] Il cinema è il fantasma della vita e non ci lascia altro che qualcosa di sensibile e concreto: le emozioni”.
L’immagine è evanescente, sfuggente eternamente ambigua. Il regista, evocatore di spettri che si rincorrono sulla superficie dello schermo, ha l’ingrato compito di tenerla a bada, di darle un senso. Soprattutto, verrebbe da aggiungere, di darle un peso, una zavorra che la ancori al suolo e che la renda “ragionevole”. E questo peso, con un certo che di paradossale, il regista portoghese lo trova proprio in uno degli elementi della grammatica cinematografica più aleatori ed aerei che ci siano: la Parola. Il paradosso nasce dal fatto che, per il cinema spettacolare, che è quello poi al quale siamo più abituati e dal quale siamo più narcotizzati, la parola nasce per riempire un vuoto. Essa, infatti, è evento sonoro la cui unica funzione è, nella migliore delle ipotesi, coprire il silenzio, colmare una distanza. Nel cinema di de Oliveira, invece, il logos è una sorta di cordone ombelicale che unisce il mondo degli spettri a quello delle idee. Essa trasforma il cinema in “fatto”, fa sì che esso non si perda nella mera riproduzione fenomenologica delle cose che passano davanti all’occhio imparziale dell’obiettivo, ma che si trasformi in espressione.
Espressione dello sguardo di un autore, certo! Ma soprattutto espressione di un volere collettivo che è quello di un popolo, di un mondo che è, in fondo, lo stesso rappresentato su pellicola, anche se lì, più che qui, ci sembra avere un senso, una logica ed un perché. E il suo dippiù di senso rispetto al di meno del mondo nel quale viviamo non dipende tanto dal fatto che l’autore si premuri di darci spiegazioni sulle cose, ma dal fatto che noi spettatori (e l’autore con noi) ne siamo fuori, a debita distanza di sicurezza. Più pirandelliano di così!
Sicché il cinema di de Oliveira è d’autore quasi per accidente. Espressione di uno sguardo personale che non vuol esser tale, che vorrebbe annullarsi nella cosa filmata magnificandosi in essa come la fenice nel suo stesso rogo. E lo sguardo dell’autore lo si coglie nella messe di riferimenti puntuali ad una cultura che è un sapere condiviso. Lo si trova nel teatro, quest’altra forma di imitazione della vita che già da sola è teatro, soprattutto quando si piega al rituale e al nostro vivere indossando delle maschere. Lo si trova nella passione per la musica che riempie di senso quasi quanto la parola. Lo si trova in tutti quelli omaggi al cinema del passato, anche l’odiato modello americano, che de Oliveira ritrova nei suoi film quando li riguarda ad anni di distanza.
Se è d’autore, ma quasi per caso, il cinema del regista, è però del popolo per precisa volontà.
Il popolo… quale parola ambigua e sfuggente! Noi in Italia ne abbiamo perso il senso da almeno vent’anni. Ma questo processo di perdita di senso non è solo italiano ed ha radici più profonde. Lo stesso de Oliveira lamenta la difficoltà di dire popolo oggi, ad un mondo che l’omologazione ha fatto somma di individualità lacerate e confuse.
Erano di certo espressione del popolo le prime opere di de Oliveira, quelle nate sotto Salazar quando un popolo si riconosceva se non altro nel comune soffrire il tacco di un tiranno. Ma lo sono anche oggi le opere più dense di metafisica. Quelle che parlano di individui e dolore come La lettre, o quelle che parlano del terrorismo che uccide maestre e bambine che viaggiano nella storia come in Un film falado.
Del resto il maestro portoghese fa cinema e del cinema lo colpisce, prima di tutto, la dimensione di assemblea, il fatto che gli spettatori si riuniscano in una sala in cui ognuno è al tempo stesso parte di una folla e solo nell’immagine proiettata sullo schermo. Questa dimensione schizofrenica dell’atto di essere al cinema, impossibile nel mondo delle visioni domestiche, fa sì che il suo cinema sia sempre espressione di una volontà politica e poetica ad un tempo.
Il cinema di de Oliveira è, e questo forse emerge troppo poco nell’ottimo saggio di Francesco Saverio Nisio edito da Le mani, di splendida urgentissima inattualità.
Ha bisogno ancora del tempio della sala per essere.
Cerca il colloquio con un pubblico disattento che non si rende per davvero conto di quanto abbia profondamente bisogno della lezione che potrebbe impartirgli. E a lui parla del suo tempo con parole ed immagini che sono al di fuori del tempo, nello spazio attingibile solo dai grandi classici. Un film falado fu apripista di una riflessione sul terrorismo che ancora non riusciamo a fare dopo l’11 settembre 2001.
Il saggista divide il discorso sul cinema del grande portoghese in tre macroaree fondanti per comprenderne la poetica: Politica, Parola e Estetica (nel sottotitolo al volume la terza fa spazio ad una più generica: Cinema). Tutta la prima parte è destinata al tentativo di risolvere l’enigma del popolo cercando di cogliere sia il modo con cui de Oliveira tenta di rivolgersi ad esso sia il modo con cui lo stesso è rappresentato nelle varie pellicole. La seconda coglie, invece, l’utopia della parola nel suo cinema. La terza, sfiora l’estetica per scivolare nella metafisica del pensiero del regista e in quel principio dell’incertezza che tanto lo rende novecentesco ed importante.
Non un approccio cronologico, ma tematico, alla ricerca di rime interne, di evoluzioni, di sviluppi di pensiero, insomma.
Il libro pretende, nel suo lettore, la conoscenza dei film del regista. Ne consiglia, anzi, e molto caldamente la visione limitandosi, per venire incontro ai più pigri o ai più smemorati, a concentrare l’analisi più serrata sulle pellicole che è più facile reperire nel mercato dell’home video.
Ne vien fuori un volume denso che ci mette a contatto con un cinema sfuggente obbligandoci a prendere maggior consapevolezza della nostra posizione di spettatori.
Scrive in questo senso il saggista: “L’atto della trasmissione di qualcosa che è accaduto nel passato si svolge nel presente, e questo lo fa diventare al contempo atto del presente: le due temporalità coesistono nell’atto della trasmissione. […] Visione del ricordo, visione della memoria, visione nel sogno: noi siamo sempre in movimento, in transito fra ieri e oggi, fra passato e futuro, ma anche fra sogno e realtà, presenza e memoria”.
Forse, pare dirci de Oliveira, questa nostra posizione transeunte ed instabile ci rende meno saldi di quelle immagini di film che vediamo quando ci riuniamo in sala. Forse la realtà è quella dell’Arte. E il vero fantasma non è quello che scorre sullo schermo, ma quello che vi scorre sotto. Il vero fantasma siamo noi.
Autore: Francesco Saverio Nisio
Titolo: Manoel de Oliveira - Cinema, parola, politica
Editore: Le Mani
Collana: Cinema Registi
Dati: 352 pp, ill. b/n e col
Anno: 2010
Prezzo: 18,00 €
webinfo: Scheda libro sul sito Le Mani
