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LIBRI: Oshii Mamoru - Le affinità sotto il guscio

Pubblicato il 23 agosto 2007 da Alessia Spagnoli


LIBRI: Oshii Mamoru - Le affinità sotto il guscio

Ha senso parlare di “autori” nel campo dell’animazione? Cosa può intendersi, difatti, con un simile termine, quando si sa che ci si dovrà confrontare con il lavoro autonomo di una serie di comparti staccati, indipendenti gli uni dagli altri? L’autore dovrà essere considerato, in tal caso, il mangaka autore del fumetto di partenza? E qualora questo non esista neppure? Come si vede bene, la questione, qui, si complica ulteriormente rispetto a quanto non avvenga già per il cinema tradizionale.
La strategia più sensata permane quella di sempre: sottoporre al vaglio dell’indagine critica l’effettiva presenza di una poetica articolata e coerente, riscontrabile all’interno dell’opera di un singolo regista. Le cose tornano a semplificarsi qualora si applichi tale strategia a un autore come Oshii, il cui nome dice qualcosa anche ai profani del settore, uno dei pochissimi assieme a Miyazaki Hayao e Satoshi Kon ad aver “espugnato” perfino l’Europa.
Oshii è attualmente uno dei più interessanti “sperimentatori dell’immagine”, come nota Andrea Fontana nella prefazione del libro. Certo, il lavoro di Davide Tarò è ingrato: costretto a muoversi nel buio, forte sopratutto delle proprie (comunque notevoli) conoscenze personali, il giovane studioso deve rivolgersi per lo più a fonti critiche giapponesi o americane, per la sua bibliografia. Dunque, ben venga un lavoro di scavo che va a rimpolpare l’esiguo numero di studi italiani su autori fin qui colpevolmente ignorati, ma che non si può più scegliere di escludere dalla trattazione “ufficiale”, qualora si voglia approfondire, tanto per fare un esempio, un settore strategico come quello della fantascienza. E ci auguriamo che oggigiorno nessuno riterrà più un’eresia affermare che Ghost in the Shell rappresenta un tassello altrettanto imprescindibile di un Blade Runner nel vasto mosaico del genere summenzionato (cui pure tanto assomiglia per ispirazione e tematiche affrontate).
Oshii ha già alle spalle una carriera trentennale e ha realizzato film non solo animati, come nel caso della trilogia “live-action” composta da Akai Megane – Red Spectacles (’87), Stray Dogs Kerberos Panzer Cops (’90) e Talking Head (’92). Ma nello stesso filone rientrano Avalon (2000) e Killers (2002). Egli è stato anche sceneggiatore per altri autori (Jin Roh – Uomini e Lupi), ha curato planning per videogames (la bellissima serie di giochi di ruolo Final Fantasy) ed ha firmato un romanzo ricavato dalla mastodontica sceneggiatura per Patlabor II. Il regista giapponese rappresenta un caso isolato, assai raro all’interno dell’industria cinematografica: ama definirsi in prima persona un “cane selvatico e solitario”, metafora che ha sempre utilizzato proficuamente anche per la rappresentazione dei suoi personaggi borderline. Nessun guinzaglio ha potuto sin qui imbrigliare la sua potente immaginazione.
L’indole ribelle si rivela già nei primi anni ’60, durante i quali si avvicina ai movimenti di protesta studenteschi (fa parte della cosiddetta “generazione Ampo”) che manifesta anche violentemente contro la presenza, in territorio giapponese, di basi belliche americane “utili” per la guerra in Corea e Vietnam. Mentre il movimento si orienta sempre più verso strategie terroristiche, il regista si allontana da esso, pur condividendone ancora l’orientamento (ma non i metodi) e comincia ad essere assorbito dai suoi primi impieghi: gli storyboards per serie “storiche” come Yattaman (’77), Calendarmen (’81) o Belle e Sebastien (’82). L’autore si forma dunque proprio nel pieno del cosiddetto “Anime Boom”, tra gli anni ’70 e i primi anni ‘80. Segue il passaggio al nascente Studio Pierrot, che gli dona la grande occasione: gli viene difatti affidata la regia di una serie anime destinata ad ottenere vasta e imperitura popolarità: si tratta di Lamù (Urusei Yatsura), basato sul manga di successo dell’allora esordiente Rumiko Takahashi. Oshii dirige anche due film tratti dalla stessa serie, Only You (’83) e Beautiful Dreamer (’84): quest’ultimo si rivela un vero e proprio flop ai botteghini, ma diverrà nel tempo un piccolo cult-movie. Curioso destino, se si pensa che lo stesso Ghost in the Shell si sarebbe risolto in un grave disastro produttivo, nonostante la sponsorizzazione di gente come George Lucas e Ridley Scott. Nel 2004, il suo Innocence sarò distribuito solo grazie al coinvolgimento della Dreamworks di Spielberg.

Pur muovendosi in universi eminentemente science-fiction, i film di Oshii prendono sempre le mosse da considerazioni relative al Giappone del secondo dopoguerra: quello della “mostruosa” rinascita economica tradottasi nell’edificazione dei moderni grattacieli in stile americano, a coprire le antiche costruzioni in legno: quartieri completamente ridisegnati dalla matita impazzita del progresso, in maniera disordinata e caotica. In Oshii gli sfondi balzano, non a caso, sempre prepotentemente in primo piano, richiedendo altrettanta quando non maggiore attenzione, rispetto all’azione principale. Altra prassi formale che evidenzia tale preoccupazione è rappresentata dal suo saturare l’inquadratura con un labirinto di oggetti, mediante l’accumularsi scriteriato di “cose” sullo schermo. I contenuti ruotano invariabilmente attorno alla confusione profonda ingenerata dalla modernità nell’animo (non solo) umano. Non si deve credere tuttavia che egli voglia “imboccare” il suo spettatore, suggerendogli tutte le risposte: nulla vi sarebbe di più inesatto. “Oshii delinea un vero e proprio percorso performativo, fatto di dolore, sangue, essenza, non soltanto puramente teorico. Lo traccia, vi mette gli attori, le comparse, la scenografia, ma fa cercare allo spettatore […] un altrove della visione con eventuali risposte […] Seguire Oshii è seguire in fondo un percorso di cui non si vede (esiste?) la fine (un labirinto, forse): ciò che conta è vivere il viaggio”.

La poetica di Oshii è ben personale, ma i materiali-base su cui essa si fonda provengono da fonti eterogenee, come il teatro giapponese (soprattutto il Bunraku), i romanzi di science-fiction, i miti, le religioni e le fiabe, il cinema catastrofico, le riviste pulp, e le detective-stories: tutto viene fuso in nome di un superiore “sincretismo della visione”.
Tarò illumina per noi la presenza di una altrimenti oscura e aggrovigliata teoria di simboli. Dalla ricorrente figura del detective, a indicare, però, una “detection” necessaria soprattutto ad indagare dentro noi stessi, prima che sugli accadimenti esterni. I personaggi di Oshii portano spesso lenti, occhiali, e i suoi disegni sono pieni di schermi, vetri, lastre ecc… altri “gusci”, altrettanti universi aperti su mondi, su visioni “altre”. Per lui non esiste difatti una visione universale, ma infiniti modi particolari di vedere. Si tratta di concetti difficilmente rappresentabili, cui si somma la consapevolezza che, nel mondo oshiiano, non può esistere comprensione, né dialogo. I suoi film sono pieni di silenzi, come nel cinema dei tanto amati registi europei attivi negli anni ’60 e ’70 e del suo prediletto in particolare, il russo Tarkovskij. Se non è possibile comunicare, la finzione diviene ineluttabile. Per questo occorrono diverse strategie, affidate ad altrettanti simulacri: “La bambola, la marionetta, il pupazzo […] incarnano una messa in scena “fasulla”, non in quanto ‘vera’ o falsa’ di per sé, ma funzionale all’inganno, alla mistificazione, alla violenza sull’individuo”. E allora “il vero e proprio palcoscenico della finzione è il più delle volte l’Io dei protagonisti, in una sorta di messa in scena del palcoscenico interiore dei personaggi in cui ognuno scopre implacabilmente la (sua) verità”. I personaggi devono cadere per potersi risollevare: devono distruggere il guscio del loro uovo, per svelarne il funzionamento interiore e carpirne la verità. Ghost in the Shell è pieno di queste “cadute” e “risalite” del Maggiore Kusanagi. “Una performance della visione di quello che è un ‘altrove’ dal nostro modo massificato di vedere le cose, che unisce passato e futuro, realtà e finzione” in singoli fotogrammi. E’ sempre per questo che l’uovo è probabilmente il simbolo più importante fra tutti, per capire la poetica oshiiana (le cabine stesse dei labor, in Patlabor, sono a forma di guscio). Come avviene per la massa inizialmente caotica dell’uovo, in cui si perviene infine alla formazione di un nucleo compiuto e separato dal suo involucro (il guscio) esterno, in maniera del tutto simile, l’esistenza dei diversi soggetti, divisi gli uni dagli altri, si delinea gradualmente, mentre in principio siamo tutti immersi nel medesimo liquido amniotico denso e insondabile.
Ma oltre all’uovo, altrettanto care al regista sono e figure femminili, simbolo del continuo, necessario, rinnovamento: “mutare” è un tratto distintivo e caratteristico della donna. E, dunque, le sue bambine, altro non rappresenterebbero che “la speranza del divenire” (come nel finale di Ghost in the Shell). Già i robot di Patlabor avevano anticipato il farsi femminile del tratto nel mecha-design, prima ancora dei più recenti e celebrati Eva di Neon Genesis Evangelion, differenziandosi dai cosiddetti “robottoni” dall’aspetto più tozzo e nerboruto di nagaiana memoria (Mazinga, Goldrake, Jeeg) o di Yoshiyuki Tomino (Gundam, Daitarn 3, Zambot 3).
Tali e innumerevoli altre riflessioni sono ospitate nelle pagine di questo volumetto madido di contenuti, poiché la conoscenza dell’opera oshiiana da parte dello scrivente è, come si diceva, viscerale: unico ostacolo alla lettura, l’italiano non proprio perfetto (per usare un eufemismo: in alcuni punti la decriptazione di interi passaggi si fa davvero ostica) del giovane esperto.


Autore: Davide Tarò
Titolo: Oshii Mamoru - Le affinità sotto il guscio
Editore: Morpheo Edizioni
Collana: -
Anno: 2006
Dati: 240 pp., brossura
Prezzo: 14 euro
Web info: Sito Morfeo Edizioni


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