LIBRI - Ridley Scott. Blade Runner

A oltre venticinque anni dalla sua uscita nelle sale, restano ancora in primo, primissimo piano gli androidi che sognano pecore elettriche e lottano per sopravvivere e la pervicace caccia dell’ex poliziotto Rick Deckart. Un film che non si alimenta della fanta-coscienza del Solaris di Tarkovskij, ma la letteratura e il dibattito aperto dal capolavoro di Ridley Scott, richiedono, ad ogni lustro che passa, un ulteriore incentivo al pensiero estetico-filosofico sulla pellicola. Nonostante il grande insuccesso all’uscita nelle sale, a fronte di un budget di 2,5 milioni di dollari, a distanza di anni, la pellicola che consacrò Harrison Ford come star, non risulta in nulla invecchiata. Un cinema di anticipazione e di Retrofitting, l’ ibridazione scenografica già percepibile nel precedente lavoro di Scott, quell’Alien che tre anni prima iniziò un fertile filone e innovò radicalmente il genere. Blade Runner è un cult movie a tutti gli effetti, alla cui regia si successero, racconta l’aneddotica, Robert Mulligan, Adrian Lyne, Bruce Beresford e Michael Apted e che sarebbe dovuto essere interpretato da un Robert Mitchum francamente troppo vecchio per la parte dell’agile e malinconico agente Deckart. Un film ‘senza autore’, si legge nella monografia che Lindau riedita in un agile volumetto: una pellicola che è di Scott quanto di Harrison Ford, di Philip K.Dick (l’autore del racconto da cui è tratto) quanto di David Peoples (lo sceneggiatore), un’opera dove non si ravvisa una precisa politique des auteurs o una riflessione di regia. Ma la regia c’è e si sente: Ridley Scott, ‘regista del bagnato’, ossessiona lo spettatore con l’acqua anti-catartica, acida e sporca, una black rain (titolo di un altro film del regista inglese) invasiva e debilitante. La metropoli del futuro perde gli abusati connotati da film catastrofico fanta-politico e ne acquista altri simbolici, elementari, invasivi: una notte perenne, l’acqua delle piogge acide, il fumo soffocante dello smog, un’umanità brulicante e senza apparente meta, la verticalità. Una caratteristica, quest’ultima, a cui hanno attinto e attingeranno quasi tutte le ‘ricostruzioni’ d’epoca futuribile, dagli infiniti livelli socio-stradali del Quinto Elemento a quelli di Minority Report in cui il caos cittadino si eleva in altezza. Una stilizzazione che rimanda agli inchiostri e matite di Moebius e Syd Mead e sarà di ispirazione per tutta l’arte visuale (vedere il videoclip di Love kills dei Queen per credere..).
Blade Runner lega in una matassa unica e apprezzabile il filo rosso, i vari fili rossi che collegano androidi e cyborg, umani e iper-umani, dalla Robitrix di Metropolis che aizza gli operai contro la fabbrica all’urlo di ‘morte alle macchine’ al T1000 cameroniano, passando per l’Asimov del racconto Liar, in cui il protagonista è un robot che mente a fin di bene, acquistando così una imperfezione tutta umana e umanizzante. In un secolo in cui si tende sempre più all’epoca che Giuseppe Longo chiama del ‘simbionte biotecnologico’, evoluzione del cyborg frutto del mix tra i concetti di creatura, strumento e ambiente, Blade Runner instilla la “mistica dell’androide”, che porta il replicante dickiano a risultare un impossibile tentativo dell’uomo di staccarsi da se stesso, in cui l’altro da sé è il sé senza alcuna certezza della propria origine e del proprio futuro. E’ quindi possibile in un film che sottolinea l’individualità dell’artificiale – si chiede l’autore della monografia – pensare al replicante come a un’opera d’arte?
Blade Runner (locuzione introdotta da William Burroughs) si compone di ‘valori plastici, fascino narrativo, estetica avanguardistica, preconizzazione di tendenze sociali e culturali’. Un melting pot di simbologie e ossessioni che camminano di pari passo con il melting pot metropolitano, caotico e senza radici che anima le strade di una Los Angeles soffocata da smog e pubblicità al neon. La sceneggiatura a tratti risulta incongruente, un elemento che l’autore del libro ravvisa anche nelle numerose versioni, succedute e firmate ‘director’s cut’ più per convenienza commerciale che per filologia artistica. Stanley Kubrick stesso notò che se i replicanti sono in tutto identici all’uomo, perché è scontata la necessità della loro eliminazione? Un film dove l’anacronismo futuristico è punto di partenza, non semplice sostrato scenografico: l’acconciatura à la Joan Crawford dell’allora modella Sean Young, quel suo particolare modo di fumare che tanto ricorda la fatale Barbara Stanwyck de La fiamma del peccato, le pubblicità di marchi riconoscibili e l’obsolescenza degli oggetti tecnologici, dai cellulari – enormi - ai computer -già allora vecchi - rimandano a un’epoca futuribile in cui il passato è innestato come i ricordi degli androidi. Lo stesso appartamento di Deckart appare tecnologicamente ‘superato’, come sembreranno l’appartamento del personaggio di Sam Lowry nel Brazil iper-orwelliano e quello di Bruce Willis nel citato Quinto Elemento.
L’analisi del film spartiacque per il genere di fantascienza, entrato nella leggenda e nel linguaggio comune (Ho visto cose..) viene condotta con particolare sapiente originalità da Roy Menarini, professore al Dams di Gorizia, che suddivide la narrazione filmica in 14 sequenze (peccato per la qualità scadente delle fotografie), per poi scavare il film a ritroso, individuando 3 macro-sequenze semantiche. Una prima parte in cui prevale l’esposizione della messa in scena e che svela le coordinate spazio-temporali entro cui si dipanano le vicende. Una seconda parte , ‘La caccia’, in cui l’investigatore anarchico e solitario, uccidendo i replicanti uno a uno uccide la forza-lavoro che si ribella, aderendo, come braccio armato del potere, al sistema costituito. In questa lettura marxista si evince quanto l’eroe che sogna unicorni bianchi sia esso stesso il vero replicante, un uomo-macchina che non si può ribellare agli ordini del sistema, che applica un metodo deduttivo fatto di domande ossessive, il Voigt-Kampff che tanto ricorda nel nome il ‘metodo’ del Mein Kampf hitleriano. Il terzo ‘movimento’ del film risulta il più inquietante: qui prende corpo l’ipotesi degli androidi more human than human, più umani degli umani, soggetti a passioni e ossessioni, che amano la vita più degli uomini. Oltre a questi, sono molti gli spunti che regala il volume dedicato al film: da una lettura politica, che sottolinea quanto a ogni immagine si sottintenda la critica al capitalismo selvaggio, che libera le merci e imprigiona gli uomini a una lettura che sospende il giudizio tra una rappresentazione della condizione post-moderna e un grande affresco conclusivo sulla modernità. Un piccolo, interessante e originale volume, rieditato provvidenzialmente dalla Lindau, in vista della presentazione a Venezia dell’ennesimo director’s cut da parte di Ridley Scott. Se – come asserisce Menarini – non possiamo non definirci tutti bladerunneriani, la nuova versione non apporterà nulla di nuovo al fan e al cinefilo, sarà solo una buona occasione per poter assaporare nuovamente Blade Runner su grande schermo.
[Carlo Dutto]
Autore: Roy Menarini
Titolo: Ridley Scott. Blade Runner
Editore: Lindau
Collana: Universale Film
Anno: 2007 (prima edizione 2001)
Dati: 112 pagine, 16 fotografie b/n, brossura
Prezzo: 12 euro
Web info: Sito Lindau
