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Libri - Varney il vampiro, Il banchetto di sangue

Pubblicato il 24 giugno 2010 da Alessandro Izzi


Libri - Varney il vampiro, Il banchetto di sangue

Comincia all’insegna della declamazione più pura Varney il vampiro, romanzo di dubbia attribuzione la cui paternità sembrerebbe divisa tra due ben noti poligrafi della Londra vittoriana: Thomas Preskett Prest (lo stesso di Sweeney Todd, il diabolico barbiere di Fleet Street) e James Malcolm Rymer.
Del resto, il romanzo (opera fluviale che l’editore Gargoyle divide in tre volumi, il primo dei quali, Il banchetto di sangue, è oggetto della presente analisi) nasce all’interno dei famigerati penny dreadful: narrazioni a puntate, destinate al pubblico dei periodici, che dovevano, per loro stessa natura, attirare l’attenzione dello spettatore e tenerla poi avvinta, puntata dopo puntata, all’interno di un arco narrativo il più lungo possibile. Esattamente come una soap opera o una telenovela argentina.
Con quest’ultimi prodotti dell’intrattenimento televisivo, Varney il vampiro condivide l’aspirazione ad un pubblico quanto più ampio possibile (che in parte abbassa il livello di ogni pretesa autoriale) e l’idea di una narrazione talmente ampia da poter arrivare, in fieri, al punto di negare le sue stesse premesse. A distanziarlo da questo modello è, invece, la propensione al fatto di sangue, alla fascinazione del perverso, alla descrizione fosca che, nelle soap, viene piuttosto sostituita da una magnificazione della dimensione sessuale, all’erotismo esibito e all’edonismo più sfrenato.
Del resto i penny dreadful sono figli del romanticismo e del romanzo gotico, quindi di un periodo in cui la morte veniva ancora percepita come qualcosa di naturale cui poteva facilmente contrapporsi l’azione perversa del sovrannaturale, mentre le soap sono figlie di un periodo di rimozione del lato “deperibile” e “transeunte” del corpo con conseguente esaltazione del puro piacere del sesso e delle apparenze.
Sicché, Varney trova il suo incipit nella piena esibizione degli artifici del narratore orrorifico provetto: notte squarciata da fulmini, rumore di grandine alla finestra che si confonde con il picchiettio di unghie che grattano il vetro in cerca di un’entrata e la bella e casta di turno (già possibile anticipazione della Mina stokeriana) messa in pericolo da una non meglio precisata minaccia. Gli ingredienti della messa in scena, esaltati dall’uso di una narrazione al presente indicativo (artificio adottato solo in pochi capitoli del romanzo) che trasforma il lettore in testimone passivo del narrato non si tirano indietro di fronte a nessun elemento spaventevole, come la scelta di spostare l’attenzione del lettore fuori della camera, dall’altro lato della porta chiusa a chiave, ad ascoltare inorridito il lappare bestiale del vampiro che attinge alla giugulare (almeno così pare) della povera malcapitata. L’incipit, anzi, ha un valore quasi cinematografico, con l’attenzione che si sposta dal cielo gravido di minaccia sin giù al vetro della finestra e alla povera fanciulla attanagliata dall’orrore come in un dolly che attraversa lo spazio già presago delle possibilità del digitale contemporaneo.

Con pochi tratti l’attenzione del lettore è tutta lì, schiavizzata dal gesto veloce, dalla prosa gridata e da personaggi che sfiorano la bidimensionalità di caratteri da teatro minore.
Poi, pian piano, l’attenzione si sposta oltre e il racconto comincia a prendere corpo. Con esso prende corpo, però, anche una dimensione “scettica” che, man mano che la narrazione procede, si fa sempre più ingombrante con le sue esibite connotazioni ambigue. È chiaro fin da subito, infatti, che gli autori ritengono l’esistenza dei vampiri una mera superstizione (identificandosi, con questo nella posizione del medico, Mr Chillingworth che continuerebbe a nutrire dubbi sull’esistenza dei succhiasangue anche se se ne trovasse uno di fronte), ed è chiaro altresì che questa vocazione razionalista finisce per mettere tra parentesi l’incubo ad occhi aperti che tanto potentemente aveva aperto il romanzo, riconducendo ogni elemento sovrannaturale nei limiti del conosciuto e dell’esperibile.
Questa “svolta regolarizzatrice” coincide con due momenti forti del racconto: la presentazione del presunto vampiro (che ha modo ed agio di esprimersi apertamente molto più di quanto non faccia ad esempio Dracula nel capolavoro di Stoker e che, almeno all’inizio, sembra giocare sul fatto che gli altri lo considerino un mostro dell’oltretomba) e l’irruzione in scena dei personaggi del vecchio ammiraglio Bell e del suo attendente Jack Pringle i cui duetti riportano la narrazione all’interno di quadrucci di facile, quanto efficace ironia popolana (con conseguenti difficoltà per i traduttori impossibilitati a restituire i doppi sensi verbali del loro gergo marinaresco).
L’acme di questo processo di smitizzazione del mostro trova il suo vertice nel momento dell’irruzione della massa popolare nel corpo del racconto. Qui, anzi, il vampiro perde ogni aura perturbante e diventa figura goffa, da comica muta, obbligata a scappare a destra e sinistra inseguita com’è, da una folla (che è anche quella, credulona, dei lettori) descritta con forte propensione al bozzetto e volutamente opposta al mondo aristocratico (ancorché in piena decadenza) dei Bannerworth.
Il romanzo ha un suo fascino che va ben al di là dei limiti connaturati ad un’operazione seriale come quella dei penny dreadful, ma per saperne di più non ci resta che rimandare ai prossimi due volumi di questo romanzo fluviale di prossima pubblicazione presso Gargoyle.


Autori: Thomas Preskett Prest, James Malcolm Rymer
Titolo: Varney il vampiro - Il banchetto di sangue
Editore: Gargoyle Books
Dati: 544 pp, copertina morbiba con alette
Anno: 2010
Prezzo: 16,00 €
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