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Libri - Viaggio per amore

Pubblicato il 10 aprile 2011 da Alessandro Izzi


Libri - Viaggio per amore

Il testo di letteratura teatrale obbliga sempre, il lettore, a costruirsi un proprio spazio per la messa in scena, un luogo tutto mentale nel quale confrontarsi con l’immaginazione dell’autore e coi propri stessi fantasmi.
Il paradosso che emerge dalla lettura dei testi di Berardi è che essi sono intrinsecamente pieni di spazio. In alcuni casi, come in Land Lover si sente più spazio nella lettura che non nella visione concreta della messa in scena.
Il volume raccoglie tre testi di Berardi: Il Deficiente, Briganti e il già citato Land Lover più un frammento di Popeye, opera purtroppo incompiuta. In ciascuno dei testi lo spazio è declinato in modo diverso, ma tutte le declinazioni seguono un comun denominatore che cercheremo di identificare.

Lo spazio in Berardi è sempre strano, inebriante, a suo modo spaventoso.
In Il Deficiente ad esempio, forti di un’indiscussa unità di spazio che soffoca i personaggi sotto la potentissima lente di ingrandimento del pubblico osservante, le coordinate spaziali si gelano nella solidità estrema di una prigione. In questo che è il primo lavoro che apre la raccolta, lo spazio è una realtà da attraversare. Una realtà insidiosa ed incerta che si slabbra nella sua solidità concreta eppure apparente. Ad essere sicuri, infatti, sono solo gli estremi del conosciuto, le mura della prigione (e, nel concreto, le quinte del teatro), mentre all’interno è tutto un navigare di incertezze che sono esistenziali prima che materiali.
Ogni mobile, ad esempio, è provvisto di ruote. Ci si dice che tale scelta dipende dal fatto che, se vi si sbatte contro, non ci si fa male. Ma, aggiungiamo noi cambiando livello, così l’oggetto scenico si fa anche fluttuante, indefinito, aleatorio. Basta troppo poco per spostare le cose in un silenzio generale neanche rotto dallo stridio di un movimento di rotella mal oliata. Il gioco concreto dei finti arredi di una stanza rivela allo spettatore la sua dimensione di convenzione scenica e lo spazio si fa scomponibile e ricomponibile all’infinito. La genialità del momento in cui Franca sposta i mobili della stanza non sta tanto nella sua logica drammaturgica (così poi tutti i personaggi, i ciechi come gli accecati, non avranno più punti di riferimento), ma nella sua componente meta teatrale. Lo spazio scenico è talmente rigido che anche il cambio scena avviene a vista. Sono semmai gli attori a trovarsi nella condizione del pubblico, al di là del sipario che chiude lo sguardo alla soluzione di regia.
Ma la concretezza dello spazio è assolutamente spaventosa e doppia. Come nel sogno di Omar in cui c’è un labirinto sempre più grande (spazio che si allarga, quindi) e sempre più claustrofobico (spazio che si restringe, quindi). Un luogo entro cui correre sempre più veloci per rimanere fermi.

La logica dello spazio prigione assume connotazioni michelangiolesche nello straordinario Briganti. In quest’opera l’idea del solo attore che interpreta tutti i ruoli senza cambio di trucco (e ancora una volta a vista) è il finto problema in cui incappa lo spettatore. È il virtuosismo dell’attore eccellente che inganna il pubblico spostando altrove la sua attenzione come avveniva nel teatro barocco quando, in mancanza del sipario, l’attenzione del pubblico veniva portata fuori scena da qualche commediante rumoroso in platea mentre i macchinisti, sul palco, spostavano le quinte.
In realtà il vero lavoro dell’attore non è sul ruolo, ma sullo spazio. Uno spazio chiuso, stretto come un guanto sul suo corpo che va teso, allargato, modellato ai fini della scena. Berardi è come un prigione michelangiolesco, suda per uscire dalla roccia, annaspa per trovare, davanti allo spettatore, la propria realtà. L’oscurità che lo circonda è densa ed elastica. Ha la consistenza del lattice che sempre aderisce fino a soffocare se non lo si allontana, con sforzo, dalla gola. E per tutto lo spettacolo, il gioco dell’attore è un combattere con uno spazio implosivo che è tanto buio (e vi è fondamentale l’eccellente drammaturgia luminosa di Gabriella Casolari) quanto è silenzio. Uno spazio del non essere che, per divenire, si riempie di maschere, ciascuna con un suo perché, ciascuna con una sua storia bella e vera che emerge dal vuoto della memoria con lo sforzo di un animale che si libera dalle sabbie mobili.
Il buio di Briganti non è quello provvisorio di Il deficiente dove almeno un personaggio vede sempre (e con lei il pubblico), ma è un buio colloso e viscido, vera conditio sine qua non che soggiace alla messa in scena. Se nella storia di Omar il pubblico era la sguardo onnisciente cui non era negata visione neanche al buio dove i ciechi hanno dominio, in Briganti il pubblico si fa sguardo cieco attraversato da squarci di luce. Lo sforzo del personaggio è, quindi, mettersi in vista, quasi che il semplice essere visto significhi, in certo qual modo, esistere. La tempesta sulla scena assurge così alla dimensione di un sublime kantiano nel quale il pubblico riconosce la sua assoluta piccolezza. È il pubblico a restare al buio e, quindi, nell’anonimato di una non esistenza meno coraggiosa di quanto si manifesta sulla scena. Così Briganti ha un impeto romantico sotto la dura scorza del lavoro contemporaneo. Popolare e sperimentale al tempo stesso, dove i due poli del binomio sono portati all’estremo, fin dove l’elastico si tende senza spezzarsi. Questo è il senso della sensucht.

Di qui l’esasperazione della poetica del frammento. Perché cos’altro è Briganti se non l’accostamento polemico e politico (ma esistenziale e dolente) di frammenti eterogenei che si incastrano e si ricompongono come i mobili spostati sulla scena de Il deficiente? Una ridda di momenti che non esisteva nella storia di Omar per la semplice ragione che lì lo spazio era contenitore e l’acqua prende sempre la forma della brocca nella quale viene versata. Briganti, viceversa muove nello spazio imploso della memoria e assembla brandelli di vita a comporre la maschera di un arlecchino tragico, fatto di pezzi di essere, sangue e sudore.
E così doveva essere anche Popeye, ridda di frammenti nel procelloso mare delle messe in scena. Così ce la racconta il mai troppo compianto Franco Quadri nella nota introduttiva. Di Popeye, schiantatosi sugli scogli, rimane un pezzo di monologo che del volume pubblicato da Ubulibri è quasi epigrafe.

Land Lover, da parte sua, fluidifica la spazialità in una prospettiva ancora nuova. Dallo spazio contenitore di Il Deficiente si passa, infatti, allo spazio transitorio del viaggio e del movimento. Sulla carta la piece apre addirittura nel foyer, segno di uno spettacolo che comincia ad abbandonare lo spazio deputato del palco per spostarsi ovunque. L’attrice, nella parte di una hostess, accoglie il pubblico sin dall’ingresso nel teatro e lo coinvolge nella messa in scena con una finta vendita di prodotti inesistenti. Prima dello spettacolo è già teatro.
Poi la narrazione comincia e tutto lo spettacolo si chiude nel palco. Ma è una chiusura parziale dal momento che lo spazio è già stato messo in discussione. Nelle varie repliche dello spettacolo questo incipit assai efficace è spesso omesso il che è un peccato perché Land Lover è tra tutti gli spettacoli presentati quello che maggiormente lavora su un fuori scena stratificato su tantissimi livelli.
Intanto è transeunte tutto lo spazio del racconto che passa dalla hall di un aeroporto ad una sala d’aspetto, dalla strada ad una discoteca che, oltretutto, è anche spazio onirico, rappresentazione di un sogno. Luoghi di passaggio, quindi e non di stasi. In questi luoghi si affrontano due coppie speculari di personaggi: due stanziali e due viaggiatori (guarda caso entrambi da Modena).
Ma già qui la linearità apparente si complica: i due abitanti dell’isola (il santone e il transessuale) sono in realtà sradicati, stranieri sulla loro stessa terra. Il santone per via del suo rapporto col divino che lo spinge sempre verso un oltre a stento tollerato, il transessuale per il suo essere naturalmente “tra” dimensioni sessuali (e quindi esistenziali) diverse. Abitanti del luogo i due personaggi sono, forse i più persi nel labirinto sempre più grande che terrorizzava ne Il Deficiente. Rappresentazione dello spirito lui e della carne lei, i due personaggi, beckettianamente interrelati e quindi indistricabili, si confrontano e lottano con figure diverse dell’altrove: il santone lotta perennemente con uno spiritello invisibile segno un al di là dello spazio intuibile, ma non percepibile, il transessuale si confronta con gli uomini che giungono all’isola in cerca di sesso facile. Due diverse forme d’esorcismo, una dell’anima l’altra della carne nella comune ricerca di un amore che è anche porto e rifugio ai marosi del vivere.
Dall’altro lato ci sono poi i turisti modenesi che viaggiano, ma hanno radici profonde, cordoni ombelicali che li legano a madri possessive che tarpano loro ogni possibilità di esistere. Due coppie speculari, si diceva, ma ogni membro della coppia ha la sua immagine speculare nel proprio partner in un gioco di rifrazioni quadruple ben esemplificato dalle traiettorie geometriche dei percorsi in scena e fuori scena dei vari personaggi. Percorsi viepiù complicati dai continui rimandi ad un altrove spaziale ed esistenziale che arrivano dagli spiritelli che spostano i mobili (immagine replica de Il deficiente) e nelle continue telefonate di Gianni alla madre a casa. La ricerca dell’amore non porta a risposte scontate. Il viaggio, apertosi già nel finale de Il deficiente può portare al naufragio come alla meta. Ma, pare dirci Berardi, forse il più interessante degli autori giovani attualmente sulla scena, quel che conta è partire.

ARTICOLI CORRELATI: Intervista a Gianfranco Berardi


Autore: Gianfranco Berardi
Titolo: Viaggio per amore
Editore: Ubulibri
Dati: 104 pp, copertina brossura
Anno: 2010
Prezzo: 13,50 €
webinfo: Scheda libro sul sito Ubulibri


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