Lo zio d’America

Bisogna rassegnarsi ad una verità di fatto: la televisione italiana, quando si cimenta nella fiction, riesce a produrre solo un prodotto medio la cui strategia estetica si pone a metà strada tra il teatro popolare (lo stesso che, poi, arriva ad esiti straordinari in De Filippo) e il fotoromanzo da rivista patinata. La sceneggiatura, infatti, segue le regole dell’impostazione teatrale non solo per quel che concerne la divisone delle scene e degli atti, ma anche per quel che riguarda il movimento dei personaggi sulla scena, il loro incontrarsi, incastrarsi secondo un modello di chiarissima derivazione scenica. Dall’altro lato, la messa in scena, obbligata dagli apparati tecnici che distruggono la continuità tipica del teatro divedendo tutto in vere e proprie sedute fotografiche con tanto di posizionamento delle luci e ripresa spezzettata delle azioni, fa si che le varie inquadrature vengano rivissute nella logica della vignetta fotografica tipica del fotoromanzo. Ne viene fuori un prodotto ibrido, spesso fiaccante dal punto di vista narrativo, incapace a trovare un ritmo coinvolgente e che si affida tutto, per il suo successo alle situazioni raccontate (che devono essere, per lo più riconoscibili da parte del pubblico) e al gusto frizzante delle battute (quando si ha una commedia, come in questo caso) o al patetismo delle interpretazioni (quando, per contro, si è in pieno dramma). Forti di queste premesse, è da dire che Lo zio d’America riesce, malgrado le premesse (la presenza di un attore inflazionato come De Sica, l’affollarsi di un vero e proprio stuolo di sceneggiatori nell’impaginazione delle varie puntate che garantisce un risultato assai disomogeneo al tutto), a mantenersi nei lidi di uno spettacolo inaspettatamente garbato, mai geniale, mai originale, ma, in fin dei conti sopportabile. La qual cosa è davvero una sorpresa. La storia narrata deve, per coprire il sostanzioso numero di puntate previsto, contenere un certo numero di personaggi e situazioni che si incastrano tra loro secondo un meccanismo abbastanza ben collaudato (certo non sempre il risultato dell’avvicendamento delle storie parallele è veramente efficace, ma, del resto, l’organizzatore del tutto non è Altman, né pretende di esserlo). Il protagonista del racconto è Massimo Ricciardi (lo zio d’America del titolo: un Christian De Sica insolitamente misurato), un nobile di nome e di fatto che, come tanti collegi decaduti, oltre al titolo nobiliare ha conservato ben poco. Proprietario di Villa Ricciardi (ultimo possedimento rimasto alla famiglia), il conte, in effetti, ha ben poco di cui vantarsi e la stessa magione di cui conserva le chiavi è, più che altro, solo una continua fonte di spese (le stanze da riscaldare per evitare l’umidità le guasti, il tetto che cade a pezzi, il parco da curare ecc.). Per far fronte a tutte queste spese Massimo era partito a cercare fortuna in America, fidando nella sua buona stella e nella sua innata propensione per il canto. Di qui il titolo affettuoso di Zio d’America che la numerosa famiglia non ha tardato ad affibbiargli, titolo ben presto smentito dal fatto che il bel tomo, si vede costretto, da un’amante eccessivamente gelosa, ad abbandonare gli States e a ripiombare in Italia proprio nel momento in cui le sue sorelle hanno deciso di vendere la proprietà a facoltosi stranieri. Delle due sorelle rimaste ad aspettarlo Beatrice è la più grande e responsabile. Dopo la separazione da un marito tutt’altro che amorevole, è stata la prima a capire che bisognava rimboccarsi le maniche per mantenere un minimo status quo. Per far fronte alle esigenze della vita ella non ha esitato ad aprire un beauty center. Per contro la seconda sorella, Mercedes, vive la sua depressione causata da un matrimonio poco felice con Andrea, uno psichiatra che non esita a cornificarla intestando beni ed immobili all’amante che è, oltretutto la sua segretaria. Non mancano le nipotine Manuela e Flaminia accudite dalla tata Nenè in una famiglia che si vede prevalentemente femminile con tutti i problemi che ne derivano. Ognuno di questi personaggi ha la sua piccola grande storia da mettere sul piatto del tavolo da gioco. Ed è proprio qui, nella necessità di un direttore d’orchestra (o, se preferite di un uomo che semplicemente porta i pantaloni) che si dimostra l’abilità di Massimo non appena rimpatriato. Come Cyrano de Bergerac egli diviene ben presto un vero e proprio manipolatore dei destini di tutti (anche se a fin di bene) e, salvata la villa dalla vendita riesce a farla diventare addirittura un centro di affari, mai fiorente e sempre ad un passo dal fallimento. Come Cyrano, poi, egli si trova di fronte una donna che ama (un’insolita Ornella Muti: efficace), ma da cui non è, all’inizio riamato e di cui deve diventare una sorta di maestro e mentore di seduzione. Come si vede gli ingredienti per una buona confezione ci sono tutti e, anche se la regia si risolve in una piatta messa in quadro dei personaggi, e anche se la sceneggiatura tradisce troppo spesso la sua vocazione teatrale (peccato non avere lavorato con maggiore consapevolezza sui linguaggi e sulla contrapposizione tra accenti romani e un italiano risciacquato in Arno), il tutto resta alla fine, uno spettacolo forse un po’ troppo lungo (otto puntate), ma se non altro abbastanza fresco e quasi mai volgare.
(Lo zio d’America); Regia: Rossella Izzo; Soggetto: Graziano Diana, Simona Izzo, Paola Pascolini, Marco Presta; Sceneggiatura: Simona Izzo , Graziano Diana e Rossella Izzo (1°Puntata); Antonio Cosentino (3ºPuntata); Emanuela Del Monaco (3°Puntata); Giuseppe Badalucco (4°Puntata); Franca De Angelis(4ºPuntata); Herbert Simone Paragnani (5° Punt.); Massimo Torre (6° Puntata); Roberta Colombo (7°- 8° Puntata); Musiche: Pino Donaggio; Montaggio: Raimondo Crociani; Fotografia: Franco Lecca; Interpreti: Christian De Sica, Ornella Muti, Eleonora Giorgi, Karin Proia, Paolo Conticini
Messa in onda: da domenica 20 ottobre per otto settimane; ore: 20:45; Rete: RAI 1
[novembre 2002]
