Ma che storie... il cinema di Gianfranco Pannone (Intervista)

Avevamo lasciato Pannone a riflettere sulla novità scandalosa del documentario e da lì riprendiamo. Dai massimi sistemi è giunto, però, il tempo di scendere di più nella prassi. Nel quotidiano di chi il cinema lo fa. Continuano le domande.
E a proposito di novità il documentario è il genere che più di tutti si affida alla tecnologia e alle innovazioni. Com’è cambiato il documentario per le innovazioni tecnologiche di questi ultimi anni?
Stare dietro alla tecnologia non è facile. Girare in HD è molto interessante. Io, ad esempio, ultimamente ho girato con la Canon, il modello di macchina fotografica di cui ora si parla molto, il 5d (ma c’è già il 6d!), un piccolo documentario sui settantacinque anni della città di Aprilia. Ed è successo questo: la macchina fotografica ha una memoria molto breve che ti permette di registrare poco più di dieci minuti alla volta, poi si deve scaricare il materiale. In questo modo, dovendo interrompere le riprese ogni dodici minuti, con i ciak in campo perché il suono va registrato separatamente, e con gli obiettivi intercambiabili, avevo l’impressione di essere tornato alla pellicola, tenendo anche conto che la Canon 5d permette una notevole profondità di campo, senza che ti si spappoli l’immagine come avviene a certe ore del giorno quando giri con una semplice camera digitale. In questo modo ho avuto la possibilità di lavorare maggiormente sul rapporto tra testimone e ambiente, mentre prima avrei “stretto” più facilmente su semplici primi piani. Ma le mie scelte in campo fotografico dipendono molto da quello che più che un amico considero un compagno di strada: Tarek Ben Abdallah col quale lavoro tantissimo.
Io non sono un fanatico della tecnologia e la penso un po’ come Rossellini quando diceva che la macchina da presa è come la forchetta. Detto ciò, trovo che la tecnologia possa permettere al documentario di avere un maggior respiro cinematografico.
Ad ogni modo la pratica non è lontana dal mio modo di pensare il documentario. Contrariamente a quanto si pensa, non credo che il documentario sia rubare brandelli di realtà e girare quanto più possibile. Non solo almeno. Nel senso che c’è anche il “cogliere la vita in fragrante”, ma a monte ci deve essere senso dell’organizzazione, una buona scaletta e ancor prima un opportuno lavoro di ricerca, che poi magari si mette in discussione sulla base del materiale che viene girato. In fondo il documentario ti costringe a una forma mentis anche più razionale di quella che si ha nella fiction, perché, alla fin fine, sei in un work in progress e puoi sempre trovare cose che ti spiazzano e ti fanno addirittura cambiare l’assunto dal quale eri partito. Questo è ciò che cerco sempre di trasmettere ai miei studenti.
E quando il regista non sta dietro alla realtà, ma dietro all’immagine come avviene in Ma che storia?
Ma che Storia… è un film di repertorio, una cavalcata storico-musicale che non ha la pretesa di raccontare tutto, ma che lancia dei messaggi, delle provocazioni. Il prezioso repertorio dell’Archivio Luce l’ho scelto non solo in virtù del suo potenziale informativo, ma anche per capacità di suggestione poetica. Il fatto di abbinarli ad una musica, di non limitarli alla sola presenza della voce di uno speaker, risponde all’esigenza di restituire agli archivi una dimensione più cinematografica, proprio come cerco di fare anche con le immagini che giro oggi. Tutto il mio lavoro aspira ad essere un mix di passione e sapienza linguistica, che guarda senza mezzi termini al cinema.
Il repertorio in Ma che storia viene reinventato, ripensato non alla luce della “Voce di Dio” (così nell’ambiente chiamiamo scherzosamente la voice over) che ti prende per mano, ma lanciando allo spettatore “solo” dei suggerimenti, delle suggestioni, spesso anche delle provocazioni. Se lo spettatore, magari un giovane, esce dalla sala dicendo di voler leggere un libro per approfondire il tema che ho trattato, per me è un complimento, perché certo non sta a me spiegare tutto, ma piuttosto lanciare segnali attraverso immagini e suoni, che possano essere anche evocativi; e sempre attraverso un sistema di narrazione che cerca di evitare lo standard televisivo.
Una reinvenzione che però non passa attraverso la deformazione dell’immagine e la sua manipolazione anche tecnologica e digitale…
No. Anche se penso ad ogni modo che la manipolazione sia inevitabile. Già il solo scegliere la posizione della macchina da presa è manipolazione. Il problema della manipolazione è un falso problema. Il problema piuttosto è di natura etica e investe sia il cinema del presente che quello d’archivio. Per esempio, sugli archivi, l’autore deve sempre porsi un problema: fino a che punto considero mio questo materiale che non ho girato io?. Ad esempio in Ma che storia una cosa è il trattamento che riservo ai cinegiornali, un’altra è il trattamento che riservo ai documentari. Nel primo caso mi sento molto più libero di agire, perché i cinegiornali sono di tutti, non sono firmati. Certo, li rispetto in quanto documenti. Nel secondo caso, quello dei documentari che portano la firma dell’autore, cerco sempre, nei limiti del possibile, di tenere sequenze intere, rispettandone l’autonomia. Non è, quindi, la manipolazione in sé ad essere sbagliata. Devi saperti chiedere fino a che punto ti appartiene ciò che porti in montaggio. E lo stesso avviene con la realtà che filmi. In una fiction la realtà ti appartiene completamente e i personaggi in qualche modo te li modelli da te. In un documentario non puoi mai fare del testimone un tuo personaggio, non puoi farlo andare dove meglio preferisci; il regista deve saper fare un passo indietro, consapevole che la sua interpretazione della realtà si compirà in fase di montaggio, la vera scrittura del documentario. Questo a meno che sulla realtà non assumi uno sguardo “verticale” alla Michael Moore, che non è affatto disonesto, perché il suo punto di vista è dichiarato sin dall’inizio. Il problema sta, semmai, nella presunta oggettività di certi reportage televisivi o di tanti telegiornali, che giocano sull’ignoranza linguistica del pubblico, magari per far credere certe cose invece che altre.
Nei tuoi documentari c’è un lavoro estremamente delicato sul suono che spesso agisce da maieutica sull’immagine. Vorresti parlarcene?
Cerco sempre di lavorare non in modo piano, “regolare”, ma direi in modo contrappuntistico. Questo l’ho imparato sia attraverso la frequentazione di musicisti come Ambrogio Sparagna o Daniele Sepe, sia attraverso la collaborazione con un tecnico del suono della levatura di Marco Fiumara che è, giustamente, uno dei fonici più quotati del cinema italiano.
Per quel che attiene la musica, mi considero un onnivoro. Amo sia la musica alta che quella bassa e spesso Ambrogio Sparagna, scherzando, mi prende in giro dicendo che so più cose di lui. In realtà ascolto molta musica e questo gusto per l’ascolto me lo porto fin da quando ero bambino, anche se l’ho affinato solo negli ultimi anni. Ho frequentato sempre molto volentieri i musicisti, per i quali nutro anche un po’ di invidia, beninteso, benevola!
Poi con Ambrogio, Daniele Sepe o Riccardo Tesi c’è anche un rapporto di amicizia che va al di là della sola collaborazione.
In più questo gusto sonoro si è molto rafforzato con la frequentazione, come dicevo, di un amico e fratello come Marco Fiumara.
Io e Marco abbiamo frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia insieme e ci conosciamo da tempo essendo entrambi di Latina. Come il direttore della fotografia, anche lui della “cricca” del Csc, mi ha insegnato tante cose sull’arte del filmare, Marco mi ha insegnato ad affinare l’orecchio, dimostrandomi come molte cose possano essere spesso raccontate semplicemente attraverso il suono, il quale , se lavorato bene, può arricchire del venti anche trenta percento il valore di un film. Con lui ho imparato che la parola va amministrata e che il suono può avere la forza di “allargare” il paesaggio. Non è solo una questione di effetti stereo, si tratta di interloquire con i suoni tenendo conto del loro valore espressivo.
Sono particolarmente interessato alla cultura del suono in presa diretta come viene utilizzato in Francia, dove esiste una sensibilità in questo senso, da noi è arrivata davvero molto in ritardo. Ho dovuto leggere i libri di Chion per capire che cos’è il suono di un film; uno dei suoi libri me lo passò proprio Marco Fiumara. Noi purtroppo viviamo nel paese del doppiaggio che, pur avvalendosi di una grande scuola, è pur sempre fatto di convenzioni oltre che di figure consolidate che, in quanto tali, stanno lì e non permettono ricambi. E con loro non cambiano neanche i soliti suoni di fondo!
Questa faccenda del doppiaggio, questa sua dimensione convenzionale, mi riporta alla realtà italiana. In fondo i film doppiati sono l’ennesima dimostrazione che l’Italia non crede nella realtà, così piena di rumori e interferenze. È un paese scettico, cinico per eccesso di violenza, il quale, proprio a causa di questo male storico, crede che tutto debba essere reinventato, magari, come nel caso di Sergio Leone, aggrappandosi, beninteso, con grande maestria, a generi e convenzioni di culture altre. Insomma, quest’incapacità di noi italiani a credere in noi stessi e di conseguenza anche alla forza della realtà, fa sì che anche quando ci rivolgiamo al Mondo, abbiamo sovente una sovrastruttura ideologica (direi un’arma di difesa) che ci guida e ci informa, perché la realtà, in fondo, è figlia di una Natura poco amica, c’è poco da scherzare! Il che ci conduce anche al bisogno di forti figure paterne (e materne), dalla Chiesa al Fascismo, da Mussolini a Berlusconi, passando per Craxi. Sì, è anche per questo scetticismo storico che il documentario non ha mai avuto successo in Italia. Fortuna che in questa Italia “taroccata” tra i giovani si fa sempre più prepotente il bisogno di verità, che magari trova sfogo su internet come nella voglia di fare film a basso costo.
A questo proposito Internet, con le sue piattaforme, il filesharing e così via può offrire nuove prospettive al documentario italiano?
Riguardo internet, oggi pesa molto il problema della qualità dell’immagine, che è a risoluzione relativamente bassa, anche perché in Italia non siamo ancora provvisti della Banda larga. Le cose stanno molto migliorando, ma anche qui registriamo il nostro consueto ritardo tecnologico. Detto ciò, credo che internet sia utile soprattutto perché facilita lo scambio di informazioni e perché ti mette nelle condizioni di essere fuori da tutto ciò che è establishment. Il pensiero di quanti frequentano il DAMS oggi è molto influenzato da internet ed è diverso dal modo di pensare della mia generazione. I giovani di oggi amano poco il cinema italiano, per esempio. Ed io li capisco, perché capisco come spesso loro vedano nel nostro cinema qualcosa di asfissiante, di provinciale. Così finisce che i ragazzi parlino veramente poco di cinema italiano. È molto più facile che ti raccontino di un film americano che è passato al Sundance Festival e che non ha mai avuto distribuzione in Italia, piuttosto che dell’ultimo film italiano uscito nelle sale…
Il rischio di Internet è semmai legato all’eccesso di informazioni. Troppe per permetterti di trovare la giusta concentrazione. Abbiamo troppi input che ci arrivano addosso ed io penso, lo dico come regista, che un autore dovrebbe trovare il tempo di buttarsi sulla strada e poi magari starsene un po’ da solo, invece di sedersi ogni santo giorno alla scrivania (spesso lo faccio anch’io), collegandosi ai social newtwork.
E a proposito di giovani: come vivono loro la realtà del documentario?
C’è un interesse diffuso. Non ai livelli del cinema di finzione, ma abbastanza forte. I giovani vogliono capire e spesso, giustamente, sono anche arrabbiati con un mondo che non è in grado di promettere loro più nulla. Di frequente, anche se talvolta condizionati dall’ideologia, colgo in loro l’esigenza di trovare delle alternative concrete al mondo in cui sono (siamo) costretti a vivere.
Mi scontro anche con una certa mitologia del grande cinema. Ed ho un bel daffare a dire loro: “cercate una grande storia? Non c’è bisogno che andiate in Mongolia. Il bar sotto casa vi aspetta…”. Ecco, con loro, grazie a loro, riscopro il caro vecchio Zavattini, che era un visionario, magari non da prendere sempre alla lettera; e che aveva anzitutto la grandezza di meravigliarsi. Perché la capacità di meravigliarsi per tutto ciò che ci circonda, è il primo passo verso la rivoluzione! Una rivoluzione etica, che passi anche attraverso il bisogno di scrollarsi di dosso una volta per tutte l’idea che tutto sia merda (tipico di una certa sinistra che ha perso…), perché se la si pensa così non sarà poi per niente facile scorgere il fiore che esce dal letame, come cantava De Andrè.
Insomma, se hai perso la capacità di meravigliarti, vuol dire che sei già dentro quel sistema di cose che ritieni di non amare. Ed io penso che il nostro paese abbia davvero bisogno di cominciare a cercare, con meraviglia, il bello che, malgrado tutto, c’è fuori e dentro di noi.
