Mauro c’ha da fare

Mauro è un trentenne disadattato. Lo incontriamo, a inizio film, ancora immerso negli studi universitari che affronta senza il successo che crede gli sarebbe dovuto. Vive con due genitori che per lo più lo tollerano e non vedono l’ora che si sistemi il più lontano possibile da loro, ma non sembra destinato a maggior fortuna con il genitl sesso visto che, quando gli vengono combinati incontri e cene galanti, lui fa puntualmente la peggior figura possibile.
In fondo Mauro, in questo mondo qua che è anche il nostro, non si trova per niente bene. Non sopporta il clientelismo e la realtà delle raccomandazioni in ambito universitario. Sopporta forse anche meno il mondo dei ragazzi della generazione immediatamente successiva alla sua che sono il risultato di una scuola che ha gettato la spugna sull’istruzione e di una famiglia che francamente se ne infischia. Detesta l’idea che per trovare un lavoro sia, in fondo, necessaria una qualche forma di raccomandazione anche se il lavoro in questione è portare le cassette di verdura in un mercato ortofrutticolo. E aborre l’idea di dover abbandonare la Sicilia, dove vive, per cercare lavoro e sistemazioni comunque inferiori al suo titolo di studio.
Messo alle strette dal sistema Mauro affoga nel suo stesso malessere che proietta ovunque intorno a sé, risultando presto antipatico a tutti.
In un certo senso Mauro è l’immagine allo specchio di L’ultimo uomo di Murnau. Lì un anziano portiere d’albergo, ritenuto ormai inadatto al lavoro, veniva licenziato e quindi messo a margine di un sistema di cui era stato fino a quel momento parte integrante, qui, al contrario è un giovane a non riuscire a entrare nel sistema cui pure non chiede altro che un lavoro adeguato al suo livello di studi e le sue competenze.
In entrambi i casi è il sistema ad essere mostruoso e poco importa che lì si fosse alle soglie del capitalismo più impersonale e qui, invece, si incontri il lato peggiore dell’Italia costruito su raccomandazioni, piaceri personali e le peggiori forme di arrivismo.
Così pian piano il malessere di Mauro diventa patologico. E più si invera nella forma della malattia, più assume connotati saturnini perché ci mette di fronte alla nostra connaturata attitudine ad abituarci al peggio. In fondo Mauro fa quello che tutti noi dovremo fare: continua a essere se stesso in un mondo che ci vorrebbe votati al compromesso. Ed è per questo che, da un certo punto in poi della proiezione, la sua realtà ci diventa fastidiosa: perché lui continua a desiderare altro (anche se gli manca ogni mezzo per costruirselo) quando noi abbiamo ormai cominciato ad accontentarci.
Poi, come in Murnau, un biglietto della lotteria (qui un’eredità) rilancia il finale in una farsa che, fingendo il lieto fine, addita con maggior chiarezza l’orrore del sistema.
Alessandro De Robilant costruisce un film volutamente spiacevole costruito su gag ripetitive come il giro di un criceto sulla ruota dentro una gabbietta. Il film non è del tutto risolto, probabilmente. Forse gli manca un po’ più di rigore nella messa in scena. O più probabilmente paga una certa indecisione tra surreale e denuncia sociale, tra commedia acre (di quelle della migliore tradizione) e ritratto generazionale. Però era da tanto tempo che il cinema italiano non sfornava un personaggio così genuinamente antipatico. Ed era da tanto tempo che gli strali di un film non ambivano a essere così allegramente distruttivi. Fosse anche solo per questo Mauro c’ha da fare meritera la visione.
(Mauro c’ha da fare); Regia: Alessandro Di Robilant; sceneggiatura: Alessandro Di Robilant, Alessandro Marinaro; fotografia: David Scott; montaggio: Alessandro Di Robilant, Fabrizio Famà; musica: Fabio Abate; interpreti: Carlo Ferreri, Evelyn Famà, Andrea Borrelli, Cettina Bonaffini, Massimo Leggio, Sabrina Tellico, Marcella Oliveri, Marcello Perracchio, Raffaella Bella, Liliana Lo Furno, Antonello Puglisi, Luana Toscano, Saro Minardi, Santo Pennisi, Riccardo Maria Tarci; produzione: 095mm; origine: Italia, 2015; durata: 86’.
