Michael Moore: Stupid white men

Sembrerebbe proprio che Michael Moore abbia, col tempo, deciso di accettare di essere uno dei pochi cantori dell’America buia. Sicuramente il grande documentarista (animato da quella limpida passione civile che sempre più raramente ci capita di vedere tra gli scenari dell’inaugurato terzo millennio) si erge, attraverso le sue opere, come una sorta di coscienza critica di quella Nazione che ci va raffigurando con tratti di spietata compassione. Anche dalle parole del suo ultimo libro, Stupid white men, pubblicato ora in Italia presso Mondadori, emerge prepotentemente il ritratto caustico di una cultura (quella americana) osservata con vivida partecipazione e sdegno feroce. Grattando sotto la superficie dell’immagine ufficiale di efficienza ed ipertecnologia che gli USA tentano, con successo, di spacciare al mondo per vera, Moore scopre, sotto pelle, il cancro di un odio feroce, di un razzismo strisciante e pervasivo e di una radicata ignoranza che relega una fetta troppo consistente della popolazione nei ranghi di un analfabetismo prossimo a sfociare in violenza disperata. Una società che non è in grado di prendersi cura dei suoi esponenti più deboli (guarda caso neri od ispanici), e che sa prestare attenzione solo alla conservazione o all’accrescimento dei privilegi di una piccola casta di ricchi (neanche il 10% dell’intera popolazione) non dovrebbe, ci dice Moore tra le righe di questo libro appassionante ed appassionato, essere posto al governo dell’interno pianeta. Come pure è impensabile che un popolo il cui unico interesse sembrerebbe essere la finale del Super bowl, che non si inoltra mai nella lettura di un misero quotidiano (solo l’undici per cento del pubblico americano supera i fumetti e l’oroscopo dell’ultima pagina), che vanta quarantaquattro milioni di persone che non sanno leggere (cui bisogna aggiungere 200 milioni che lo sanno fare, ma, di solito, non lo fanno), si autoassegni al posto di guida di quell’immenso treno che ha nome Terra. Con satira feroce, lo scrittore riesce a comunicarci tutta l’ansia di vivere in una nazione di perfetti idioti (Capitolo 5: Idiot Nation), in quel luogo ideale che altri chiamano America in cui l’attività preferita è sfornare a getto continuo studenti analfabeti e che non dovrebbe essere additato come faro di civiltà e democrazia, “almeno finché la maggioranza dei suoi cittadini non sarà capace di individuare il Kosovo (o qualsiasi altro paese bombardato) su una carta geografica”. (pag. 110). E di fronte a tanto orrore perde importanza (ma non poi tanto) la feroce polemica contro quel presidente (Bush) illegalmente eletto che governa la nazione e che fa dei suoi arresti per guida in stato di ebbrezza un proclama, dei sonnellini presidenziali (che durano tutto un giorno) un modello per i futuri aspiranti alla carica e della sua ignoranza un vanto (considera estremamente formativo per la sua infanzia un libro pubblicato un anno dopo la sua tesi di laurea -comprata). A leggere certi capitoli (in specie quelli che riguardano la palese ignoranza del capo di stato o quelli che riguardano la difficile vita delle scuole pubbliche dove classi di oltre una trentina di alunni sono stipate, per mancanza di locali, negli sgabuzzini con le scope) si ha l’impressione che la realtà descritta da Moore, non sia tanto quella americana quanto quella italiana. E per un attimo un brivido ci corre dietro la schiena nel considerare come questo libro di fitte trecento pagine sia stato pubblicato proprio dalla casa editrice di proprietà del nostro stupid white man. Ma poi uno sguardo alla nostra realtà contingente, al nostro popolo di grandefratellari, appassionati di calcio più che di politica ci spiega in maniera anche fin troppo eloquente l’apparente paradosso. Perché la società mercificata in cui viviamo è, ormai, a tal punto radicata da riuscire ad assorbire tranquillamente il contraccolpo dello scandalo delle parole di Moore fino a trasformalo in un ennesimo successo economico e in un campione di vendite (il libro è stato best seller per settimane in America). La società capitalista che vede nascere un libro che ne descrive con spietato realismo le amare contraddizioni, sa bene, ormai, come trasformare lo scomodo testimone in merce privilegiata di scambio. E il pubblico italiano, abituato ormai dalle giustizie televisive (anch’esse berlusconiane) del nostro vendicatore rosso, potrà fin troppo facilmente scambiare la profondità di Moore per un’ennesima impresa del Gabibbo. La realtà di fatto non cambia e il pubblico dimentica anche troppo presto le ragioni che l’hanno portato, appena ieri, a scandalizzarsi. Di fronte ad un’America tanto simile all’Italia in cui anche le differenza tra destra e sinistra si assottigliano fino a costruire lo scenario di un pantano indistinto (capitolo 10: Democratici Difettosi in Partenza, uno dei più belli) non c’è proprio ragione di stupirsi del successo di un libro scomodo come questo. E a noi non resta che una manciata di inquietanti interrogativi: la lucida prosa di Moore (quanto vivida! Quanto splendidamente visuale! Quanto vivace!) non resta forse un caso troppo isolato per farci sperare in un risveglio reale di coscienza? Riusciranno le sue parole a farci agire oltre che indignare? È vero, certo, che la sua penna vola alta, come rondine, nel cielo di una potenziale nuova stagione. Ma farà davvero primavera?
“E’ stupefacente che io abbia vinto: mi sono battuto contro la pace, la prosperità e il vicepresidente in carica” George W. Bush, 14 giugno 2001 (durante un colloquio con il primo ministro svedese Goran Perrson, senza sapere che una telecamera era ancora in funzione)
Autore: Michael Moore; Titolo: Stupid white men; Titolo originale: Stupid white men; Editore: Mondadori; Collana: Strade Blu; Pagine: 305
[maggio 2003]
