Venezia 71 - Mita Tova - The Farewell party

Il cinema è sempre messa in scena della morte.
Anche quando non diventa indiscussa protagonista del racconto, anche quando resta discretamente fuori dai confini rassicuranti della narrazione, la Morte è la condizione stessa del filmare.
Il film, in fondo, è l’impressione su pellicola (o su supporto digitale) del trapasso di un momento che non tornerà mai più. Sta qui, del resto, la sua utopia e la sua bellezza: consegna ai posteri la fine di qualcosa.
Eppure nei valori del mondo occidentale contemporaneo, la morte è diventata un tabù con cui è difficile confrontarsi se non nelle dinamiche rassicuranti del melodramma. Parlarne è di cattivo gusto, farne oggetto di riflessione è segno di una strana mancanza di sintonia con un presente per cui l’immagine, per essere consumabile, deve essere prima di tutto falsa e poi vendibile.
Mita Tova - The farewell party racconta la morte dal controcampo, rarissimo nel cinema contemporaneo, della vecchiaia. Mette in scena un ospizio e dei simpatici vecchietti che si confrontano ogni giorno con il lento spegnersi dell’esistenza. E si pone una domanda: a chi giova prolungare le sofferenze di un malato terminale che non chiede altro che gli si stacchi la spina? Perché negare all’uomo quel gesto pietoso che, per contro, si concede invece agli animali?
Una domanda non di poco conto soprattutto se si considera che prende corpo nel contesto della cultura israeliana che ricorda ancora con bruciante sofferenza come sia stato semplice, in un tempo ancora dolorosamente vicino, scivolare dalla dolce morte concessa ai malati terminali, all’eutanasia coatta dei malati di mente, giù fino all’orrore della soluzione finale.
Sharon Maymon e Tal Granit, registi di questo che non esistiamo a definire un piccolo miracolo drammaturgico, si tengono ben lontani da queste considerazioni culturali. Allo stesso modo sfiorano appena la dimensione religiosa con cui sarebbe stato facile affrontare un tema complesso come questo. Piuttosto scelgono la strada di un racconto minuto, ad altezza dei personaggi, in una dimensione laica che non preclude un rapporto con il sacro proprio allo stesso modo con cui Kieslowski diceva di non credere in Dio, ma di avere un rapporto con lui.
Ecco! Proprio il cinema del sommo regista polacco, l’ultimo forse dei grandi autori di quando il cinema ancora si cercava come arte, sembra quasi illuminare la strada dei due cineasti israeliani.
E forse il più bel complimento che si può fare a The farewell party è che davvero sembra in più momenti abitato dallo spirito di Kieslowski. Perché anche qui, come ne Il Decalogo, tutto sembra ruotare nell’eterno girotondo tra bisogno di imperativi etici e libero arbitrio.
In breve la vicenda: in un ospizio di Gerusalemme un gruppo di amici, nel tentativo di alleviare le sofferenze di un malato terminale, costruiscono una macchina per concedergli una morte indolore. Il meccanismo è completamente automatico e può essere avviato solo dal malato stesso che deve appena premere un pulsante, liberando così gli altri dalla responsabilità del gesto. Di qui, come in una commedia inglese di quelle delle annate migliori, si sparge la voce tra gli altri anziani della cosa e nuovi malati terminali cominciano a chiedere lo stesso triste rimedio.
Il racconto non risolve il dilemma esistenziale in cerca della tesi astratta, ma lo lascia palpitare, inquietante, in ogni singolo fotogramma. Intorno alla questione etica i registi intessono un’incredibile ragnatela di storie verosimili, ognuna capace di farsi carico di una direzione morale, ciascuna rappresentazione di un destino individuale. Compresa quella della vecchietta che proprio non vuole morire e che rappresenta le ragioni della Vita nonostante tutto.
La portata della consapevolezza del disegno la si sente tutta quando il film ci mette davanti una delle protagoniste, destinata dall’Alzheimer a perdere la memoria di sé, guardare le registrazioni con le ultime dichiarazioni dei malati terminali che premono il pulsante che porterà loro la morte. In questo campo/controcampo tra l’immagine che resiste al passare del tempo del cinema e il lento svanire della coscienza dell’individuo sta l’espressione di un quesito che investe il senso stesso della funzione dell’audiovisivo nella società contemporanea.
Eppure, malgrado la sublime altezza drammatica dei temi affrontati, The farewell party ha, e cerca ad ogni sequenza, il ritmo della commedia. Soprattutto – e qui sta un merito grande - ha il coraggio di superare la scorciatoia della commedia nera che, fingendo di affrontare il tabù, ristabilisce, invece, lo status quo dei valori culturali dominanti.
È un film coraggioso, The farewell party, perché chiude i conti non con le idee, ma con le storie che mette in scena. E si avvale, nel far questo, di un cast perfetto dai protagonisti fino alle comparse.
Un film che vive nella ferma convinzione che ci sia poesia solo dove c’è quella Vita vera che fa piangere e fa ridere in un tutt’uno, senza che davvero ci sia contraddizione.
(Mita Tova); Regia: Tal Granit, Sharon Maymon; sceneggiatura: Tal Granit, Sharon Maymon; fotografia: Tobias Hochstein; montaggio Einat Glaser-Zarhin; musica: Avi Belleli; interpreti: Zeev Revah (Yehezkel), Levana Finkelstein (Levana), Alisa Rozen (Yana), Ilan Dar (Dr. Daniel), Rafael Tabor (Rafi); produzione: Pie Films, 2Team productions; co-produzioni: Pallas Film, Twenty Twenty Vision, United King Films con il contributo di The Israel Film Fund, The Jerusalem Film and Television Fund, Reshet, Yes Satellite Television, MDM Mitteldeutsche Medienförderung; origine: Israele, Germania, 2014; durata: 93’
