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Nero Infinito

Pubblicato il 23 maggio 2013 da Marco Di Cesare


Nero Infinito

Si sa come il cinema, in quanto Arte dell’(audio)visione, per un suo statuto, forse addirittura fondativo, sia ovvia espressione di un vedere e sentire in quanto rapporto completamente sensibile col mondo circostante (il quale potrà essere, in sede di rappresentazione, più o meno trasfigurato). Dato, poi, che il cinema, nella sua durata oramai acquisita di lungometraggio, assume i contorni prevalentemente di narrazione, diviene acclarato come ogni film sia il luogo della sedimentazione di una storia; inoltre, essendo il cinema un’arte con una storia oramai più che centenaria (nel secolo della modernità, per giunta, dove ogni anno, a causa delle innovazioni tecnologiche, pare scorrere più velocemente e sembra, quindi, pesare più di qualunque altro anno dei precedenti secoli), viene normale pensare come il cinema debba fare i conti con la sua stessa, medesima, Storia. Se poi si aggiunge come il concetto di autorialità, ossia dell’individualità del singolo dietro la macchina da presa e della sua visione del e sul mondo, non possa comunque essere separato dalle circostanze del tempo nel quale si vive, con difficoltà si potrebbe ascrivere a una sola persona la paternità di un’idea e della sua espressione, le quali rimangono tuttavia figlie della cultura del tempo e, quasi, una creazione collettiva. Occorre infine pensare come sia arduo separare l’arte e l’industria, dato che ogni espressione artistica in ogni caso dipende, se non proprio da un apparato industriale paragonabile a quello cinematografico o televisivo, sempre dal denaro, più o meno tintinnante, che le gira intorno e dalla possibilità di mostrare e, soprattutto, di vendere l’opera d’arte in quanto prodotto.

Dopo queste premesse appare scontato giungere alla conclusione che oramai il cinema è un’espressione del già visto, del già sentito: in particolar modo per quanto riguarda i contenuti, ma anche per quanto concerne la loro espressione sul piano formale. Forma che non può che sopravanzare l’aspetto contenutistico e i concetti che ne sono alla base, dato che qualsiasi linguaggio è prevalentemente una questione di forma e che è quest’ultima che può subire maggiori variazioni nel tempo, laddove i contenuti possono incontrare maggiori difficoltà nel rinnovarsi.

E il cosiddetto cinema di genere non è altro che un’architettura, più costrittiva rispetto al cinema non di genere, dal cui interno comunque poter far emergere l’individualità di un autore, una sua propria narrazione di intenti che possa fuoriuscire – sempre che se ne abbia la volontà – da dentro una struttura più o meno precostituita, con tutti i suoi stereotipi da utilizzare a proprio piacimento, fino magari a stravolgerli, ove l’autorialità vive lungo questa frizione con lo spirito dei tempi e le caratteristiche del linguaggio proprio dell’arte utilizzata, ossia con l’anima collettiva che vive al di fuori di ogni singola persona, confliggendo con essa.

Ma può con facilità accadere che in particolare un’opera prima senta il peso di ciò che l’ha preceduta: la storia del cinema, così come il peso della storia dell’autore che l’ha realizzata, il quale molte volte, in particolar modo se dotato di un’adeguata cultura cinefila, può incorrere nel desiderio di mostrare non solo quello che sa fare, ma soprattutto quello che sa: sul cinema, sulla sua storia. Quasi come se volesse trovare un proprio posto nel mondo, in un mondo già costituito e che preferirebbe lasciare il più possibile intatto al proprio passaggio.
Da ciò ne viene la messe di citazioni di pellicole del passato che possono caratterizzare un esordio cinematografico, laddove l’intento di omaggiare la propria mitologia diviene preponderante sul tentativo di veicolare un’opera che sia minimamente a sé stante, tanto da dover assumere la definizione di prodotto derivato, col rischio, nella peggiore delle ipotesi, di divenire addirittura un titolo tossico.

E bisogna ammettere che l’esordio del neanche trentenne Giorgio Bruno con il very low budget di Nero Infinito ha più volte valicato il limite della tossicità estetica.

La storia è quella di un serial killer che martirizza delle ventenni in una città del Sud Italia, agendo come i protagonisti dei romanzi della scrittrice Dora Pelser, sulla quale si dirigeranno le indagini condotte dall’ispettore capo Elena D’acquino (Francesca Rettondini) e dall’ispettore Valerio Costa (Rosario Petix).

Gioco fine a se stesso, modernariato di tanto cinema thriller-horror italiano (come stanno a sottolineare le comparsate di Enzo G. Castellari, Ruggero Deodato e Claudio Fragasso), tra richiami argentiani con, in più, il torture porn internazionale. È un film a tesi, Nero Infinito, ma realizzato senza fantasia alcuna, prova di un’impotenza a priori che non può essere legata solamente all’esiguità del budget a disposizione. Poiché non sono pochi i difetti della sceneggiatura, così come manca una direzione degli attori che sia capace di donare verve a un tutto ove, più in generale, manca la suspense, mentre pochi sono gli snodi minimamente degni (tra cui alcuni episodi di violenza grafica). Come se l’amore verso il passato, il suo ricordo, per il giovane Giorgio Bruno sia stato più importante di quello verso il proprio film, il proprio presente, il proprio futuro: un atteggiamento che sintetizza gran parte dell’odierno cinema thriller e horror, e non solo quello proveniente dalla nostra penisola.


(id.); Regia: Giorgio Bruno; sceneggiatura: Davide Chiara e Riccardo Trovato; fotografia: Giancarlo Ferrando e Ottavio Nasca; montaggio: Angelo D’Agata; musica: Marco Werba; interpreti: Francesca Rettondini, Rosario Petix, Riccardo Maria Tarci, Giuseppe Calaciura, Giovanna Criscuolo, Egle Doria, Enzo G. Castellari, Ruggero Deodato, Claudio Fragasso; produzione: CinemaSet; distribuzione: Nedioga Entertainment; origine: Italia, 2012; durata: 82’; web info: sito ufficiale.


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