Non è un paese per documentari? - Intervista a Gianfranco Pannone

Abbiamo incontrato Gianfranco Pannone negli studi di Blue film dove è impegnato nella realizzazione di un Nuovo documentario. Per il regista di Latina (ma nato a Napoli) è stato un lungo periodo di attività, soprattutto legata alla presentazione del suo ultimo film Ma che storia… che, in occasione del cento cinquantenario dell’Unità d’Italia, è passato in parecchi cinema della penisola (ed ora è nelle librerie e videoteche edito da Cinecittà Luce).
Pannone ha seguito da vicino le proiezioni, ha incontrato il suo pubblico, ha discusso e pensato a lungo. In un certo senso ha continuato il suo film anche fuori della moviola ed ha continuato ad aggiungere materiale alla sua cavalcata per la penisola. Il lavoro del documentarista non si esaurisce nello studio della post produzione, ma continua nei cinema quando la Realtà cercata sullo schermo incontra quella del pubblico in sala riflettendo visi. È qui che il documentarista raccoglie i suoi frutti, nel rapporto con la platea viva che vede e discute.
Ma che storia non è ancora finito. Un’altra tappa ed un altro capitolo della sua vita sarà all’Università di Tor Vergata di Roma il 18 di aprile a seguito della grande passione per la didattica che anima il regista come starebbe a dimostrare anche la pubblicazione, nel 2009, di un libro scritto a quattro mani con Mario Balsamo e dal sintomatico titolo L’officina del Reale, edito dal Cdg – Centro di documentazione giornalistica. Poi ancora ed ancora anche se il viaggio dovrà finire prima o poi…
Incontriamo Pannone, ma non ci sembra stanco. E cominciamo a chiedere.
Parafrasando un titolo dei fratelli Coen: l’Italia è o non è un paese per documentari?
Premetto che proverò a parlare delle cose positive, ma che sarò anche molto duro, perché secondo me ci sono degli aspetti che legano fortemente il mondo “documentario” alle vicende politiche e sociali del nostro paese. Non si può parlare, dunque, dell’uno prescindendo dalle altre.
In questo momento, guardando alla scena europea, oso dire che il documentario italiano è tra i più interessanti: c’è molta produzione (purtroppo spesso a basso costo, visto che di solito mancano le risorse economiche) e c’è un’interessante generazione di trentenni che si affaccia sulla scena, dopo che la mia generazione (quella dei quarantenni) ha riportato in auge, da metà degli anni Novanta, il genere riconducendola a un percorso nuovamente autoriale. A merito della mia generazione, composta tra gli altri da Costanzo, Rossetto, Piperno, Colusso, Pisanelli, Balsamo…, c’è il fatto che molti tra noi hanno coltivato anche un “gusto didattico” , nella volontà di trasmettere il proprio sapere, credendo nelle officine e nei laboratori di documentario.
Molti dei giovani che si affacciano adesso sulla scena vengono, infatti, dal mondo delle scuole di cinema (non solo pubbliche, ma anche private), da workshop o da laboratori che si sono aperti un po’ in tutta Italia. Si tratta di giovani agguerriti, ma anche molto attenti alle dinamiche del linguaggio, che non si fermano, dunque, alla mera dimensione contenutistica.
Pietro Marcello è sicuramente l’interprete più interessante di questa nuova sensibilità, che, opponendosi ad una corrente più affine al mondo del reportage, pur sempre presente ed importante, si accosta alla realtà con uno sguardo poetico, attento al linguaggio, senza, però, voler essere “interventivo” sulla realtà. Cosa che a me fa molto piacere, perché credo che la realtà sia molto più interessante se la si affronta nella sua complessità. Penso, infatti, che il “discorso a tesi” non aiuti il racconto del reale; e non aiuta nemmeno lo stare solo sul tema.
Ci sono, quindi, ormai tre generazioni di documentaristi attivi sulla scena italiana: la nuova generazione, quella dei quarantenni e quella dei fratelli maggiori, come Segre, Bigoni, Chiesa, Ferrario…, che oggi si dividono tra fiction e documentario.
A fronte di questo fermento, però, il documentario si trova ad essere completamente isolato. La cosa dipende sia da un problema produttivo sia da un problema di carattere culturale.
Sul versante della produzione pesano errori storici, che sono in parte imputabili ai produttori, ma talvolta anche agli autori e, se vogliamo, persino alla critica. È stata, infatti, data molta enfasi alla nuova primavera del documentario iniziata alla fine degli anni Novanta, ma tutto ciò non ha portato alla creazione di un “sistema” in grado di farsi valere su un mercato dell’audiovisivo già malato di per sé.
Eppure c’è stata l’esperienza di Doc/It. Come mai non ha funzionato?
Io sono tra i soci fondatori di Doc/It (era il 1999), che ha rappresentato un tentativo, in parte riuscito, di dare ordine al genere, arrivando addirittura a mettere in discussione l’etichetta stessa di documentario, che spesso veniva utilizzata senza reale cognizione di causa. Ricordo che per mesi si discusse su una precisa definizione di “documentario”, da poter presentare al Ministero dei Beni Culturali e, pur non riuscendo a darle una dizione soddisfacente, ottenemmo di poter accedere ai finanziamenti previsti dall’articolo 8 e dal Fondo di garanzia, presentando non una sceneggiatura (come si faceva fino a quel momento), ma un più opportuno dossier. Una battaglia importante, questa, che fu vinta proprio grazie alla tenacia di Doc/It. Però, ripeto, non abbiamo saputo “fare sistema”, cioè non si è saputo fare veramente scuola. Nella paura di perdere quei punti di riferimento che all’epoca avevamo (vale a dire Rai 3, Sky, qualcuno Rai cinema e pochi altri), è andata a finire, per dirla tutta, che ognuno ha pensato un po’ a se stesso e ha preferito, all’italiana, non lavorare nell’interesse di tutti. Per questo motivo alcuni tra gli autori più significativi hanno alla fine deciso di uscire da Doc/It. Anche soci fondatori, come me, o colleghi come Balsamo o Rossetto o Agostino Ferrente o ancora Enrica Colusso. Persone che erano state anche nei consigli direttivi.
Più di tutto all’interno di Doc/It e non solo, ci si andava a scontrare con la mancanza di coraggio di alcuni produttori, che, pur in parte giustificati dall’assenza di un vero mercato nazionale, preferivano lavorare sul consolidato, non andando a disturbare più di tanto il servizio pubblico televisivo (e con esso anche quello privato) e il suo “quieto vivere”, che pretendeva una sorta di acquiescenza da parte del mondo del “documentario”.
Sullo stesso crinale, in fondo, è scivolata anche l’esperienza di Fandango Documentary portata avanti con passione e ostinazione da Carlo Cresto-Dina, che poi si è trasferito prima a Milano, poi in Inghilterra a fare il produttore per conto suo. Questa realtà, infatti, è andata esaurendosi di fronte al fatto che il documentario non è remunerativo e che non c’erano degli spazi adeguati a renderlo visibile; e che, quei pochi che ancora restavano, non potevano “essere disturbati” se non si voleva correre il rischio di perdere anche quelli. Quindi una certa acquiescenza degli autori si è sposata con la miopia di alcuni produttori, che hanno pensato solo al “qui ed ora” e non in prospettiva.
In che cosa il contesto italiano non aiuta il documentario a “mettere radici”?
Mi sono messo in testa una cosa: di fronte ad un bel documentario le pacche sulle spalle non mancano mai e c’è anche un circuito alternativo (ma ben poco remunerativo) ancora zoppicante, ma comunque c’è; quel che manca è la volontà da parte di distributori e produttori di dare più spazio al documentario. Si pensi solo ad un piccolo paradosso: un documentario con tutti i crismi in Italia oggi può venire a costare duecentro-trecentomila euro (di ben altre cifre si parla in Francia o in Germania!). Per un produttore, che i soldi li prende sulla realizzazione del film, c’è ben poco da guadagnare alla voce producer free.
Prima parlavo dell’apertura del Ministero, che aveva permesso la concessione di un contributo non alla presentazione di una rigida sceneggiatura, ma alla consegna di un dossier e quindi di un percorso, almeno in parte, ancora da farsi. Solo pochi anni fa al Ministero erano felici al pensiero che con contributi così bassi si potesse realizzare il doppio dei film. Un po’ meno credo che lo fossero i produttori cinematografici…
A monte di tutto c’è, dunque, una certa ipocrisia, che investe in particolare il mondo della produzione. A livello di facciata sono tanti gli attestati di stima che molti di noi ricevono, ma al fondo in quanto documentaristi restiamo la cenerentola del cinema italiano, alla grande festa non ci invitano mai, perché nel fondo siamo scomodi come i nostri piccoli budget..
A questo si aggiunge una realtà contestuale politico-culturale legata mani e piedi al mondo della televisione. Lì le caste degli autori e dei giornalisti fanno si che un certo tipo di documentario semplicemente non debba esistere. Per cui se fino a qualche anno fa io riuscivo ancora a mandare su Rai Tre Latina-Littoria, adesso faccio fatica a mandare Ma che storia… che pure è prodotto da Cinecittà Luce e non è, quindi, un prodotto cosiddetto indipendente.
Viviamo dunque all’interno di un sistema chiuso. E non solo per quel che concerne il documentario. Lo sappiamo bene, l’Italia è un paese dove esistono forti clientele e dove pascolano poteri consolidati che non danno spazio al nuovo, a destra come a sinistra. E’ quel che di solito accade anche nelle università, quel che accade nell’editoria, quel che accade, appunto, nel cinema, poetando in particolare svantaggio a quei settori che sono i più deboli. Dunque il documentario di creazione o d’autore paga questo paradosso: di godere di una considerazione che non aveva fino a quindici anni fa, ma di non avere un conseguente riconoscimento sui versanti della produzione e della distribuzione, specie se si presenta come prodotto cinematografico e di creazione.
Tutto ciò è molto frustrante e di difficile soluzione. Non credo neanche che la risposta sia da ricercare solo in Francia, dove ora va di moda un genere di documentario molto rigorista, risposta ideologica al ben più facile documentario televisivo oltre che al cinema di Michael Moore. Quel che c’è di buono nel modello francese è che lì ai documentari è concesso un circuito distributivo nelle sale, cosa che permette ad essi di entrare nel dibattito culturale, senza costringerli nella riserva indiana, come, invece, avviene in Italia. Per il resto l’estetica rigorista vigente oltralpe non mi sembra nelle nostre corde. Esiste una via italiana al documentario, che deve muoversi, però, con maggiore ambizione e coraggio di quanto non abbia fatto fino ad oggi . Già, il coraggio… Il problema non riguarda solo i documentari di creazione. Bisogna smettere, per esempio, di castrare il nostro cinema come è avvenuto dopo l’uscita di Gomorra e de Il divo, film, che avrebbero potuto, anche considerando i loro incassi lusinghieri, segnare l’inizio di una nuova fase e che, invece, sono stati ridotti al livello di episodi isolati, cui è seguito un ripiegamento verso il disimpegno e la commedia (beninteso, genere rispettabilissimo), che oggi non a caso trionfano.
Forse al documentario è accaduta la stessa cosa, si è preferito non raccontare l’Italia nella sua complessità e chi lo ha fatto è stato tenuto ai margini dall’ambiente stesso. Noi autori non abbiamo saputo approfittare della buona congiuntura di qualche anno fa per, come si dice a Roma, menare duro. La realtà è che il documentario è per sua natura scandaloso, sprovvisto com’è del filtro della fiction; e fa emergere le contraddizioni della società in modo più diretto del cinema cosiddetto di finzione. In un paese come il nostro dove non c’è solo e tanto la censura, quanto piuttosto l’autocensura, scattano negli autori dei meccanismi che li spingono a non affrontare certi temi in modo troppo diretto e rigoroso. Spesso la voglia di piacere e compiacere, fanno sì che il documentario sia prudente e che segua la scia di quello che Pasolini definiva “conformismo culturale”. In reazione a questa realtà, c’è poi tutta una schiera di registi che si dicono non integrati, i quali preferiscono essere semplicemente “contro il sistema”. A prescindere. Il che fa sì che, a guardare al mondo del documentario italiano dall’esterno, si ha l’impressione di una realtà schizofrenica divisa tra voglia di piacere a tutti i costi e voglia di contestare senza sé e senza. In tutto questo dove finisce la complessità? Insomma, si banalizza dall’una e dall’altra parte, assecondando di fatto la pigrizia (imposta dallo stato delle cose), che si è già insinuata da un pezzo in tanti spettatori, anche i più avvertiti, giovani compresi.
E il problema della distribuzione? In fin dei conti l’Italia è un paese che i documentari li realizza pure, ma poi li chiude in un cassetto…
Io vengo dal’esperienza de Il sol dell’avvenire, che è un prodotto di nicchia, distribuito con un budget abbastanza limitato e che ha incassato circa settantamila euro nei cinema, a fronte di diciottomila copie vendute nelle librerie (con Chiarelettere e Rarovideo-Minerva), non poco per un film documentario. Uno dei problemi de Il sol dell’avvenire, è che il film è stato girato in HD e l’Italia è in ritardo sul circuito delle sale digitali. Sicché sono mancati gli spazi di promozione per un film che ha fatto anche un certo scandalo e che, proprio in virtù di questo,sono certo che poteva aspirare a qualcosa di più del buono che ha già ottenuto. E questo perché tre quarti delle sale non erano in grado di proiettare non solo in HD, ma anche nel più semplice Beta digitale… Noi scontiamo, quindi, anche un problema di carattere tecnologico. Se lo stesso film fosse uscito in Germania, ad esempio, sarebbe andato di sicuro molto meglio.
Il discorso della distribuzione passa, quindi, anche attraverso il problema delle sale. Ma, alla fin fine, è come un cane che si morde la coda. Già perché, come ho detto, c’è anche la prudenza degli autori che stanno attenti a non affrontare certi temi (non necessariamente politici); e c’è poi la prudenza dei produttori, che pensano a fare solo film di un certo tipo. Nel complesso in Italia siamo troppo spesso prigionieri di una prudenza assai diffusa, che appunto ha il suo termine giusto nella parola “conformismo”. L’Italia è un paese conformista, dove peraltro la parola “autore” fa sempre più paura; e dove il documentario fa scandalo perché non media con le problematiche del mondo come fa la fiction. Bada bene, il conformismo italiano non è solo quello “berlusconiano”, ma anche quello della sinistra! Si tratta di un combinato che provoca il “caso Italia” (incomprensibile all’estero), in cui principalmente nessuno è capace di mettersi in discussione e di liberarsi, perché si vive in un paese di poteri consolidati per necessità (quanta gente vive rinchiusa in un fortino!) e, dunque, allergico a tutto ciò che sa di nuovo. Ecco, il problema è che il documentario o “cinema del reale”, oltre ad essere scandaloso, sopravvive in questo sistema di cose.
