Mostra - La Dolce Vitti.
Rapiti dal suo volto latteo e dalla sua voce dolcemente roca, conquistati da una bellezza limpida che però quasi si nasconde dentro un talento enorme e multiforme, ci lasciamo tenere la mano da Monica Vitti, e incantati dal suo fascino che stringe e salda intensità e leggerezza - cinema colto e cinema popolare - camminiamo dentro la mostra multimediale a lei dedicata, organizzata a Roma da Istituto Luce Cinecittà. L’hanno curata Nevio De Pascalis, Marco Dionisi e Stefano Stefanutto Rosa, e senza accorgercene, nel percorso a tappe allestito presso il Teatro dei Dioscuri, al Quirinale, nello scorrere emozionante degli oltre settanta suoi ritratti - molti inediti e ricavati da archivi pubblici e privati – e da tanto altro materiale audio e video, comprese copertine e locandine di spettacoli teatrali, interviste, brani dei suoi libri e balzi di Monica dentro la televisione, assistiamo a un racconto completo e ci ritroviamo a camminare nella storia, nel secondo Novecento italiano: capita, quando parlano i grandissimi, perché la Vitti, classe 1931 - che a 14 anni aveva già compreso che recitare sarebbe stata la sua vita - è cinema, prima di tutto, ma è anche costume, Italia che cambia e omaggio alla donna. Fino al 10 giugno prossimo si va, e di tempo ce ne è ancora tanto, per chi vorrà riassaporare i gusti diversi di questa attrice prima impegnata e seriosa, inquieta e di poche parole - la Vitti di Antonioni, per capirci, che conobbe doppiando Il Grido (1957) - e poi quella esplosiva della commedia all’italiana, di risate non sempre allegre, ma intelligenti sempre: la Vitti di un cinema tanto popolare quanto nutriente, rivelatore e narratore come l’altro, lo stesso importantissimo, diversamente d’autore, diciamo. È come se ci fossero due Monica Vitti: quella della tetralogia dell’incomunicabilità, dal 1960 al 1964: de L’avventura, La notte, L’eclisse, Il deserto rosso, delle affascinanti donne borghesi di Michelangelo Antonioni, così profonde, smarrite, emancipate in cerca di un nuovo equilibrio interiore, a cui fanno "male i capelli", e quella piena di parole in dialetto, romanesco o siciliano, di sorrisi e grida, di struggente semplicità. «Popolare nel senso di semplice», dice la Vitti in un repertorio video, quel popolare nobile di cui Mario Monicelli fu suo maestro traghettatore, coautore della rivoluzione personale di Monica Vitti (all’anagrafe Maria Luisa Ceciarelli, solo che Sergio Tofano, suo importante insegnante all’accademia glielo cambiò). Il film è La ragazza con la pistola, del 1968, storia tragicomica di una siciliana ferita al cuore dal secolare maschio italico, e da lì in viaggio, per vendetta, verso la ’swingin’ London di allora, e di colpo catapultata in un altro modo di essere donna, in nemmeno troppo diverso da quello del suo vecchio e amato maestro ferrarese. In verità, anni prima, nel 1964, la Vitti aveva recitato in un episodio del film Le bambole, e in uno del film Alta infedeltà: primi brevi assaggi di quella meglio commedia italiana in cui poi rimase a lungo, per evitare, dopo Antonioni, di impantanarsi dentro vuoti film «alla Antonioni», col quale, tuttavia, sperimentò per la televisione con Il mistero di Oberwald (1980). Al di là di questa esperienza, Monica capì che anche nella leggerezza c’era modo di raccontare e raccontarsi tanto. E allora ecco il grande Ettore Scola due anni dopo: 1970, Dramma della gelosia, storia di una popolana romana in una società ormai impregnata di media e di politica, una donna più fragile che forte, frastornata dal benessere sbandierato e dalla libertà di innamorarsi e disamorarsi. Straordinaria Vitti, comica e toccante, parzialmente biografa di se stessa di pellicola in pellicola. E allora arriva Risi, e poi gli altri maestri: Salce, Steno, Loy, Magni, Comencini. «Facendo i film mi raccontavo: Deserto Rosso era parte di me, L’avventura era parte di me», ma la mostra, dal titolo La dolce Vitti, che si muove per temi e per cronologia, ricorda anche gli inizi di questa grande carriera e parte dagli inizi: anni di accademia e di doppiaggio, quando quella voce sgranata non era ancora la sua forza, ma un difetto, così come il suo corpo lungo e senza un seno enorme, il suo viso freddo rispetto a quelli morbidi che andavano di moda negli anni cinquanta. Limiti poi diventati forza, che l’avrebbero resa diva sobria e familiare, così compatibile col grande Sordi di cui divenne formidabile compagna in Amore mio aiutami, Io so che tu sai che io so e soprattutto nell’euforico, colorato ed orecchiabilissimo Polvere di stelle (1973): una festa da ballo per entrambi, luogo in cui scatenare allegramente i loro rari e giocosi talenti. Durante e dopo la commedia, racconta ancora questa bella e doverosa mostra, questo piccolo grande regalo ad una donna che lo scorso novembre ha compiuto 86 anni, immensa e da anni malata, la Vitti ha continuato a cercare, a progettare, ad individuare strade nuove, a vivere amori nel cinema e nella vita: quello per il direttore della fotografia Carlo Di Palma, per il quale interpretò Teresa la ladra (1973), dal romanzo di Dacia Maraini, e poi Roberto Russo, per cui recitò in Flirt (1983) e in Francesca è mia (1986), e che, soprattutto, le è sempre stato accanto in questi ultimi anni così difficili. Senza dimenticare l’esordio della Vitti dietro la macchina da presa con Scandalo segreto (1990). Insomma, di materiale ce n’è tanto per incontrare nostalgicamente Monica Vitti, qui abbracciata dagli amici di ogni stagione, da parole importanti e sentite, di ieri e di oggi: Alberto Sordi, Ettore Scola, Dino Risi, Steno, Dacia Maraini, Michele Placido, Giancarlo Giannini, Enrico Vanzina. Testimoni affettuosi di questa colonnella della recitazione, quella che più di tutte ha tenuto alta la bandiera delle donne in ogni settore del cinema italiano. Che ha legato le sue due anime spesso incapaci di comunicare. Col grande dono del suo talento. Solo quello.
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