Outcast (Stagione 1) - Teste di Serie

"Se il suo dio esiste, sta ridendo di lei, reverendo!"
Kyle Barnes
Considerata la crescita di fama mediatica mondiale con cui ha dovuto fare i conti Robert Kirkman, papà di The walking dead, lo show televisivo più seguito, discusso e atteso degli ultimi dieci anni, stupisce quantomeno un pò l’arrivo sul piccolo schermo in sordina di Oucast, nuova fatica a tinte horror, sempre ispirata a un’opera cartacea del produttivo autore di fumetti statunitense.
Cos’è, dunque, Outcast? La storia nera di un giovane reietto della società, Kyle Barnes (interpretato da Patrick Fugit, con sguardo triste e una perenne espressione di timore) che, additato come violento per aver quasi massacrato la sua famiglia, deve fronteggiare entità demoniache nascoste dietro i placidi volti degli abitanti di Rome, suoi concittadini: aiutato dal reverendo Anderson (Philip Glenister), Kyle pare l’unico di in grado di curare i posseduti, ma forze oscure molto potenti stanno tramando alle sue spalle, mentre restano indecifrabili il motivo della loro venuta e quali mefistofeliche trame stiano tessendo per raggiungere i loro scopi.
Scritta così, la trama di Outcast presenta molteplici analogie con altre fiabe horror in tema di possessioni demoniache ed esorcismi, con lo scopo di riprendere tutti i clichè cari del caso, soffiandone via la polvere per riproporli allo spettatore sotto diverso aspetto: all’inizio la narrazione procede con naturale lentezza, sfruttando il background del protagonista per modellare la storia e dar corpo a un contesto in cui far muovere il resto degli abitanti della spettrale Rome, ma ciò che inchioda Outcast già prima che la stagione volga al termine, si riscontra nell’incapacità di imprimere il giusto slancio a una serie che necessiterebbe di sbalzi di tensione drammatica così imponenti e improvvisi da far drizzare capelli e orecchie all’ignaro spettatore. Outcast soffre della mancanza di intraprendenza autoriale, anestetizzata da una conduzione narrativa troppo pacata per la natura dello show, evidentemente pensata per infondere un senso di spaesamento e di attesa febbrile, fino a giungere a un accenno di resa dei conti finale, in cui poco viene rivelato, ancor meno anticipato e lo scontro protagonista-antagonista addirittura accantonato; non che il tutto si riduca a un nulla di fatto (Kirkman potrà eccedere in strumentali dilatazioni narrative, così come si è visto almeno nelle ultime due stagioni di The walking dead, ma non è uno sprovveduto), ma l’impressione che si impadronisce dello spettatore fino a corromperne il giudizio si identifica con un persistente e palpabile senso di attesa, come un sentore che qualcosa stia per succedere (o che prima o poi succederà), rimanendo in gran parte deluso perfino dal misero quantitativo di azione sviluppata nell’arco di dieci episodi, che pochi non sono, un pò come affermare che il tempo del racconto in Outcast surclassi il tempo della storia, finendo per inglobarla in un abisso di suspance e attesa. Resta chiaro l’obiettivo di modellare un nuovo universo narrativo in cui perdersi e cibarsi di paura, ma Outcast si crogiola in modo eccessivo sui suoi clichè, accantonando in vari snodi lo sviluppo dell’intreccio, finendo per focalizzarsi in maniera quasi narcisistica sull’aspetto emozionale, che si sgonfia pian piano, non essendo sorretto da una struttura narrativa solida o costruita sulle azioni dei personaggi (si salva solo il protagonista, altrimenti saremmo incappati in un disastro di proporzioni bibliche). Una defezione accentuata anche dall’assenza di un cattivo di spessore, identificabile in Sidney (Brent Spiner), ennesimo, laconico e abusato straniero tenebroso, posto su un gradino più alto nella scala gerarchica demoniaca tracciabile a Rome, ma insulso nell’azione, soltanto accennata in una manciata di episodi, impantanato sullo sfondo dalla precaria impalcatura narrativa dello show.
E’ abissale il senso di attesa, mista a delusione che rimane al termine di questa prima stagione: una sensazione di spaesamento, di occasione mancata, accentuata ancor di più da una messa in scena attenta ai dettagli e mirata a procurare un evidente stress ottico, grazie ai numerosi filtri applicati per realizzare effetti visivi di distorsione della realtà sensoriale, o merito di semplici ma intensi primissimi piani reiterati e dilatati quasi allo sfinimento. Ed è questo aspetto a salvare (in parte, ma non del tutto) l’operazione Outcast: lì dove la macchina da presa osa, insinuandosi sottopelle, violentando i personaggi con riprese ossessive, alla perenne ricerca del senso del macabro, questa messa in scena vacilla di fronte alla effimera attività di uno scioglimento che sappia innescare un corposo gioco causale di azione-reazione, quasi nullo nell’arco di una stagione completa.
Outcast è stato già rinnovato per una seconda stagione, ma si badi bene: se gli showrunner (Kirkman su tutti), dovessero adottare lo stesso impercettibile incedere narrativo che da un paio d’anni ha contraddistinto The walking dead (ma che, in quel caso, gioca anche a favore dello show stesso, per evidenti motivi di contesto), tale decisione potrebbe rivelarsi fatale, tanto quanto un esorcismo finito male.
(Outcast); genere: horror; sceneggiatura: Robert Kirkman; stagioni: 1 (rinnovata); episodi prima stagione: 10; interpreti: Patrick Fugit, Philip Glenister, Wrenn Schmidt, David Denman, Julia Crockett, Kate Lyn Sheil, Brent Spiner, Reg E. Cathey; produzione: Circle of Confusion, Fox Networks Group; network: Cinemax (U.S.A., 3 giugno-12 agosto 2016), FOX (Italia, 6 giugno-15 agosto 2016); origine: U.S.A., 2016; durata: 60’ per episodio; episodio cult prima stagione: 1x09 – Close to home (1x09 - Il male in me)
