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SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano

Pubblicato il 10 gennaio 2021 da Mazzino Montinari
VOTO:


SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano

In questo periodo di distanziamento, di misure restrittive, di dilemmi sul come stare da soli o insieme, sul giudicare l’operato degli altri rispetto al proprio e, dunque, di visioni del mondo che potrebbero cambiare e che, comunque, sono messe in discussione, arriva su Netflix dal 30 dicembre 2020, SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano , miniserie in cinque puntate che ripercorre la vita di Vincenzo Muccioli, dall’ascesa alla caduta. E naturalmente, quando si fa riferimento a Muccioli, si dà per scontato che la storia riguardi principalmente la sua creatura, San Patrignano e, non troppo sullo sfondo, l’Italia, in particolare quella degli anni Ottanta e Novanta, almeno fino al 1995, l’anno in cui il fondatore della comunità morì.

Un progetto ambizioso che fa discutere, che ha già suscitato le reazioni di sdegno della comunità stessa, e che riporta alla memoria un passato recente, rivelando le complessità di un periodo sociale e politico per niente banale, come talvolta si tende a far credere quando si parla di anni Ottanta. Certamente, nuove visioni si affermarono ma, anche a partire dalle vicende di San Patrignano, per niente edoniste, disimpegnate e anti-ideologiche. Da questo punto di vista, il progetto SanPa mostra tutta la sua forza. L’enorme quantità di materiali di repertorio trasporta lo spettatore dalla mera successione documentaria dei fatti a una specie di rappresentazione horror con sfumature da romanzo distopico. Un archivio che proviene da numerosi fonti, interne ed esterne alla comunità, nel quale amore paterno e violenza, cura e punizione, accoglienza e reclusione, vita e morte, sembrano essere tessere per un mosaico informe, indifferente alla posizione dei termini. Tutto si lega, tutto si confonde.

Improvvisamente, intorno alla tragedia vissuta dai tossicodipendenti e dai loro famigliari, si scatena una lotta tra chi pensa a una terapia senza alcun fondamento scientifico e medico, basata sull’uso della forza e di sentimenti "paterni", quelli del "padre padrone" Vincenzo Muccioli, e chi cerca di contrastare le barbarie delle catene, dei pestaggi e delle torture seguendo altri metodi, altre strategie (nel documentario in realtà, San Patrignano appare impropriamente come l’unica realtà esistente e, giusto per fare un esempio, non si fa alcuna menzione della 180 o comunemente detta Legge Basaglia e dei suoi profondi significati). Un’opposizione, quella basata sullo studio e sull’inalienabilità dei diritti, che sembra vana in un paese che mostra il suo vero volto nelle piazze artefatte della televisione e in quelle delle città costruite con l’asfalto, dove parimenti è invocata la violenza come metodo legittimo per curare, se non eliminare, i tossicodipendenti, gli emarginati del momento.

Sono proprio le immagini presumibilmente prodotte dai sodali di Muccioli, ma anche dalla Rai (questa, però, potrebbe essere una sottolineatura ridondante che marca una differenza inesistente), a mostrare la banale e crudele ferocia di una collettività che poteva battere le mani sia alla risposta esatta di un quiz, sia a una bastonata (talvolta mortale) inferta a un essere inerme. Una collettività inflessibile con i deboli e pronta a perdonare qualsiasi malefatta del capo e dei suoi "ben scelti" assistenti, fiera di essere uscita dalla violenza della lotta armata e del terrorismo e ora baldanzosa nell’affermare quanto reclusioni forzate e torture fossero tollerabili, per una giusta causa. La mite borghesia che confessa di amare il lavoro sporco degli altri, sottovalutando le gravi conseguenze che un certo indugiare e indulgere porta sempre con sé (ogni riferimento alla più stringente attualità è voluto).

Nessuna delle accuse che presto arrivarono nei confronti di Muccioli e dei metodi adottati a San Patrignano, scalfì i convincimenti della cosiddetta opinione pubblica, quasi si trattasse di una prova generale per quello che sarebbe accaduto dopo, con i conflitti tra la magistratura e Silvio Berlusconi, altra figura che voleva imporsi come un padre (meno manesco) e che nel frattempo sdoganò fascismo, leghismo, razzismo e altro ancora.

La serie creata da Carlo Gabardini, Gianluca Neri, Paolo Bernardelli e diretta da Cosima Spender, ha perciò il pregio di evocare e far riflettere nuovamente su qualcosa che si era messo da parte, al pari di un fuggevole momento deciso da un sol uomo. Un successo prevedibile, perché le vicende di SanPa richiamano alla mente gli archetipi della nostra civiltà, a partire dall’ Antigone di Sofocle, cioè dalla questione centrale del dissidio tra le leggi dello stato e quelle naturali della famiglia: il conflitto tra Creonte, che invoca il rispetto delle norme prescindendo dai singoli, e Antigone, che reclamando il corpo di suo fratello, chiede per sé un’eccezione. Tuttavia, come in tutte le questioni complesse, lo schema non si ripete mai fino in fondo. E dunque, se Muccioli e i suoi dirigenti erano troppo spietati (e potenti) per assumere il ruolo dell’Antigone, lo stato non ha affatto indossato i panni di Creonte. Al contrario, lo stato/Creonte ha stretto un patto con la comunità/Antigone, producendo delle gravi ripercussioni. Nessun antagonismo, perciò. Verrebbe da dire, le prove generali per capire fin dove ci si potesse spingere con l’opinione pubblica. Un laboratorio nel quale si cercava di trasformare l’indicibile in idea condivisa.

Ed è qui che il documentario mostra un lato decisamente debole. Finora abbiamo menzionato il materiale di repertorio, spesso montato in modo didascalico e accompagnato da musiche invasive, e nonostante tutto potente, estraniante, evocativo. In alternanza, oltre a scene di finzione, sulle quali è meglio soprassedere (non tutto ciò che immaginiamo deve per forza essere accompagnato da un’immagine!), vi sono le interviste. Qui il documentario regredisce al suo formato più tradizionale, seguendo un filone di successo ma decretando anche un atto di sfiducia nei confronti di un pubblico che si reputa inadatto a confrontarsi con forme più evolute e originali (cosa che, peraltro, con i prodotti seriali di finzione non accade più).

Ad ogni modo, le interviste più importanti si concentrano sulle esperienze personali di alcuni frequentatori di San Patrignano che hanno avuto un ruolo importante nella storia della comunità, e sulla ricostruzione del figlio di Muccioli, Andrea. Su tutte, spicca l’intervista a Walter Delogu, l’autista di Muccioli, il braccio destro che con il fondatore di San Patrignano ha condiviso luci e tenebre, successi e disgrazie. Se in prima battuta le testimonianze di Delogu appaiono interessanti, avvincenti, toccanti, più si va avanti e meglio si comprende quanto di sé il testimone stia raccontando una specie di auto-rappresentazione. Come in un film di finzione, seguendo le regole delle sceneggiature mainstream, emerge una figura che dall’oblio trova l’insperato riscatto attraverso la figura di un mentore, per poi trasformarsi in una specie di eroe che a un certo punto prende congedo dal mentore stesso per compiere un cammino personale. In questo "film di genere", si scopre alla fine di tutto (non è uno spoiler, la storia è nota) che l’uomo si è emancipato grazie anche a un’audiocassetta nella quale era registrata la voce di Muccioli che suggerisce come uccidere uno scomodo testimone. Al di là delle questioni etiche e giudiziarie, il punto che dovrebbe far riflettere è che questa azione come altre sembra (ri)costruita a favore di una narrazione precostituita. Delogu, per fini puramente personali, nasconde di fatto un’informazione preziosa, decisiva per chi ha vissuto senza conoscere la verità e che per questo ha sofferto. Solo eventi estranei alla sua volontà lo costrinsero a tirarla fuori. Ha senso drammatizzare questo episodio, renderlo spettacolare dopo averlo tenuto celato, in nome del colpo di scena con tanto di lieto fine (Delogu che guida l’autoambulanza mentre sua figlia Andrea è diventata una nota attrice e presentatrice)?

Nelle interviste, insomma, tutto si fa più lineare: le tenebre riguardano Muccioli e l’idea di San Patrignano in generale. Mentre a chi gli è stato accanto, a chi ha condiviso quei metodi, è toccata la luce del racconto risolto, dello sguardo dall’alto sulla vita. Una luce che non produce ombre. Un racconto che non esce dai confini austeri della comunità (nel frattempo senza che nessuno se ne accorga, accadono cose che cambiano il mondo e l’Italia). San Patrignano riguardò (e continua a riguardare) tutti: un’intera classe politica che costruì delle leggi apposta e accolse delitti e incompetenze dentro le regole democratiche; un gruppo che in quel contesto "obbedì agli ordini", nella migliore delle ipotesi, reprimendo dubbi e incertezze; un’opinione pubblica che di lì a poco avrebbe assistito ai tragici fatti della Diaz a Genova, alla morte di Carlo Giuliani, di Stefano Cucchi... scrollando le spalle, avrebbe sostenuto guerre di "civiltà" e invocato l’abbandono in mare dei migranti naufraghi.

E per raccontare questo non è sufficiente ascoltare le parole auto-rappresentative di chi vorrebbe far coincidere la storia di San Patrignano con quella di un sol uomo.


SanPa. Luci e tenebre di San Patrignano - miniserie in cinque episodi ideata da Gianluca Neri - Regia: Cosima Spender; sceneggiatura: Carlo Gabardini, Gianluca Neri. Paolo Bernardelli ; fotografia: Diego Romero; montaggio: Valerio Bonelli; musica: Eduardo Aram; produzione esecutiva: Gianluca Neri, Nicola Allieta, Christine Reinhold, Andrea Romeo per 42; distribuzione: Netflix; origine: Italia 2020; durata: 56-64 minuti.


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