Speciale C.S.I. - Don’t bother to knock: gli episodi d’autore di Friedkin e Tarantino

Sono la signora “E’ più probabile che finisca in Tv per essermi spogliata in strada” Quando faccio la spesa, no, davvero…Mi state prendendo in giro? Creando panico nell’industria Voglio dire, fate pure, volete un pezzo di me? [Britney Spears]
Lo schermo è piccolo, non preoccuparti di bussare. Tanto già non si respira – si soffoca: o, al massimo, al buio si respira meglio. Vero, Stokes? Cosa lega l’ultima accorata hit di Britney Spears e i pedinamenti voyeuristici a cui si sottopone una narcisista Asia Argento – nella serie Don’t bother to knock, appunto - al celeberrimo episodio d’autore Grave Danger, diretto da Quentin Tarantino, che ha segnato da tempo la consacrazione di C.S.I. nell’aureo olimpo dei serial cine-televisivi?
Non ci si lasci ingannare dal citazionismo: perché nonostante il titolo, Sepolto Vivo, (episodio doppio 24 e 25 per il finale della sesta stagione) recupera dalla pellicola di Roger Corman la claustrofobia soffocante del premature burial e poco altro. Allo stesso modo, nonostante il mirabolante inseguimento d’apertura, e la presenza dell’amico e complice William Petersen in scena (a conti fatti per non più di dieci minuti in tutta la puntata…), anche il nono episodio dell’ottava stagione, Cockroaches, diretto da William Friedkin, ha ben poco da spartire con Vivere e Morire a Los Angeles.
Hanno invece entrambi molto più in comune col piede di Asia, ripreso per cinque o sei minuti da tale Nick Knight e mandato in streaming sul canale ShowVideo per il progetto di Don’t Bother to Knock, costituito da una serie di pedinamenti di artisti al fine di immortalarne il processo creativo, probabilmente sulla scorta delle ricerche fotografiche della francese Sophie Calle, che dello scatto rubato come costruzione dell’identità ha fatto un segno indelebile del mondo contemporaneo.
La videocamera incollata al corpo della giovane Argento cristallizza momenti privati, che spaziano dalle riprese di Asia appena uscita dalla doccia, mentre fuma una sigaretta vicino alla finestra, ancora avvolta in un asciugamano bianco, a quelle del suo corpo nudo mentre racconta il rapporto col padre, a quelle in posa, con un televisore poggiato tra le gambe intento a trasmettere immagini della figlia Anna-Lou, quando Asia parla della fine della sua storia con Morgan.
Cosa lega queste pulsioni voyeuristiche a Grave Danger? Lo sguardo. Perché possiamo solo vedere: you can only watch, spiega il computer a Gil Grissom. E più vogliamo fare luce sul personaggio intrappolato nello schermo, nell’immagine che vediamo, più lui soffoca, soffre, muore.
Uno sguardo che uccide perché in sostanza, quando l’agente Nick Stokes viene rinchiuso da un folle in una bara, collegata mediante webcam nascosta senza audio, gli altri membri del team possono vegliare sul loro compagno solo dal computer, tenendo aperto il collegamento che si interrompe ogni due minuti; ma ogni volta che cliccano su ‘watch’ e si accende la luce nella bara che imprigiona Nick, contemporaneamente si spegne la ventola che gli garantisce l’ossigeno per sopravvivere: quindi per vederlo sano e salvo, i suoi amici, tenendo in piedi il collegamento, lo stanno uccidendo.
Attraverso la deriva umanistica sempre più commovente del suo cinema che continua a parlare di madri, padri e figli – il suo episodio diretto per E.R. si chiamava Motherhood quasi dieci anni prima di Beatrix ‘the Mother’- e dando vita egli stesso ad un cinema figlio per definizione, Tarantino ci mostra l’impossibilità di toccare il cinema, l’immagine: leggiamo il labiale, intuiamo il dolore del personaggio in trappola, fermiamo l’attimo in cui la specie a cui appartiene la formica che passa sull’obiettivo ci farà capire in quale zona di Las Vegas Stokes sia stato sepolto vivo, ma comunque possiamo solo guardare: you can only watch.
Ogni volta che Grissom clicca su ‘watch’ sembra di respirare un’aria da primo novecento, con uno stupore rinnovato per i meccanismi della visione e d’altronde Gil Grissom rimanda davvero al prototipo di investigatore di fine ‘800: è un moderno Sherlock Holmes, votato all’osservazione scientifica, al contrario del chandleriano Horatio Caine dell’hard boiled CSI Miami, uomo d’azione meno (auto) riflessivo.
E così, tra le immagini dell’attrice disinibita che balla in piedi sul water nel bagno dell’aeroporto prima di partire, e il continuo appello di Grissom a Nick per non farlo morire – “Poncho, Poncho”, con tutta la fluviale umanità di un nomignolo familiare d’infanzia – si sviluppa più di un legame, nel segno di un’assoluta indecenza dello sguardo in ogni frammento che si rivela intimo – ed ogni frammento si rivela intimo: non perchè sia ripreso il seno di Asia; non per il biancore peccaminoso con cui Friedkin ammanta il megatrip di Warrick, in pieno delirio indotto da abuso di farmaci, in questa notte incredibile in cui si è messo in testa di penetrare ad ogni costo nel quartier generale del boss Lou Gedda, lo strip club Pigalle Boulevard, tampinando una delle lap-dancers che ci lavorano. E’ lo sguardo ad essere pornografico in quanto tale, è nell’atto stesso del guardare (with one own’s eyes) che si palesa l’assoluta inaccettabilità dell’occhio.
La possessione è di chi è ossessionato dal vedere, Friedkin lo sa: il suo Cockroaches è una sorta di crossover tra Cruising e Jade, ennesimo baratro nero squarciato da repentini, fulminei, lancinanti cuts di visioni, che risvegliano l’occhio dall’esorcismo onirico in cui siamo piombati in quanto spettatori: se c’è una cosa (ma c’è?) in cui crede Friedkin, è la totale passività del soggetto: i suoi personaggi - si pensi davvero alla non-trasformazione dell’ Al Pacino di Cruising, già dall’inizio del film corpo trascendentale, o alle tentazioni di cui è preda il David Caruso di Jade - accettano la propria ambiguità come già data per recepita, assunta (come una droga, un demone?), come unica possibilità d’essere.
E l’urlo disperato di Warrick con cui Friedkin chiude questo magnifico episodio sul nero impietoso degli ending credits appare un atto di ingiustizia, ad indicare unicamente l’impossibilità di uscire dall’incubo, l’assurdità dell’assoluzione (si ripensi all’immenso Regole D’Onore), l’inutilità della ricerca del Bene come sedativo, palliativo illusorio, mero placebo.
E se la vita si interseca alla finzione (come se fossimo dalle parti del geniale ribaltamento operato da Britney Spears nel suo ultimo videoclip, fatto di finti scoop di cui è vittima per colpa di finti paparazzi per finte provocazioni e finti comportamenti shock) l’attore Gary Dourdan interprete di Warrick Brown, il cui personaggio entra in scena in Cockroaches proprio ingurgitando pillole, e i cui occhietti si fanno sempre più piccoli quanto più ci va giù pesante, è finito in manette per essere stato beccato a dormire in macchina con il cruscotto inondato di vari quantitativi di droghe.
Il cerchio si chiude, lo schermo si tocca, la visione implode. You wanna a piece of me?
