Speciale TV vintage: I Jefferson

«Però prima vorrei... le dispiace se vi faccio una domanda? Lei abita in questo appartamento?».
«Oh, sì».
«E anche lei ha un appartamento in questo palazzo?»
«Sì, anch’io».
«Beh, se andiamo avanti di questo passo presto avremo un Presidente negro!».
(I Jefferson episodio 1.1, 1975)
È stato necessario attendere un’intera generazione, i trenta e passa anni che ci separano dalla prima messa in onda de I Jefferson, per giungere all’elezione di un presidente afroamericano sullo scranno di quella che, nonostante tutto, è ancora la prima potenza al mondo. Eppure molti conflitti rimangono irrisolti nell’America interrazziale, quasi come se il tempo passasse, se non addirittura invano, almeno molto lentamente, tanto che quell’investitura potrebbe diventare perlopiù un atto simbolico, piuttosto che un modo per incidere nel reale fino in fondo, almeno per quanto riguarda le questioni razziali (interrogativi sollevati da Naomi Klein in un articolo riportato da L’Espresso n. 38 di quest’anno). E chissà quanto, ieri, lo scambio di battute sopra riportato poteva risultare scandaloso, a causa di quella parola – ’negro’ - di certo meno offensiva di un qualunque ’giovane e abbronzato’ dei tempi odierni, meno ipocrita e canzonatoria, ma comunque alquanto dura di fronte alle nostre orecchie modernamente (almeno un po’) politically correct, ma che troverà spiegazione grazie allo svolgersi delle puntate di una delle migliori sit-com nella storia della televisione americana.
Mentre cosa è che sorprende tanto e infonde una certa gioia nella domestica Florence Johnston? Un’idea sola: come è possibile che lei, nera, abbia avuto la possibilità di lavorare presso i Jefferson, una famiglia altrettanto scura, ma abbastanza ricca da vivere nell’esclusiva zona dell’Upper East Side di Manhattan? Così come è per lei ugualmente difficile credere che ci sia un’altra inquilina di colore in quello splendido palazzo di solito abitato da bianchi.
Dal Queens a Manhattan, spin-off del graffiante Arcibaldo (dove il protagonista, un bianco, appariva come l’americano-tipo, ignorante e retrivo, un Homer Simpson meno simpatico) e sempre realizzato dalla coppia Norman Lear e Bernard West, I Jefferson venne trasmesso dalla CBS dal 1975 al 1985, mostrando come allora fosse possibile unire l’impegno civile ai canoni della sit-com dai ritmi più sfrenati, rappresentando tutti i colori del nero e divenendo una delle epitomi dello schermo televisivo in un decennio caldo come è stato quello dei Settanta. Da tale temperie è difatti uscito fuori il ritratto di un nucleo di persone ben diverso, a esempio, da I Robinson, appartenenti questi ultimi a un’altra epoca - gli Ottanta - e portatori della volontà di mostrare una realtà socialmente stabile, regno di una normalità dove i problemi razziali non si fanno sentire e che genererà varie filiazioni, da Willy, il principe di Bel-Air negli anni Novanta fino a Tutto in famiglia nell’ultimo decennio: commedie etniche che distolgono l’attenzione da qualsiasi confronto all’interno della società americana, mettendo a fuoco solo il proprio gruppo di appartenenza e divenendo così il simbolo del fallimento stesso del melting-pot.
I Jefferson, al contrario, chiuderanno un’epoca senza dare vita a nessun pargoletto. Probabilmente perché hanno rappresentato un’impossibile redenzione nel caos più completo, soprattutto grazie al protagonista George, il pater familias che vorrebbe comandare senza riuscirci veramente, un bisbetico mai domo e un self-made man che, grazie a cinquemila dollari di capitale iniziale legati al risarcimento da parte di un’assicurazione, ha tirato su una catena di lavanderie a secco (pulire, smacchiare e ripulirsi fino a diventare bianchi, in un umorismo che punge fra le righe), un esempio di nero retrogrado, maschilista e razzista verso i bianchi che proprio i bianchi sembrerebbe volere un po’ imitare: «Il viso pallido si è arricchito sui futuri (i futures, ndr) per anni, ora voglio la mia parte: è ora di integrare anche i soldi!» come afferma in 2.15, nonostante in seguito si difenda affermando che «Io non voglio imitare il bianco, voglio solamente fare i soldi!». La dolce e adorata moglie Louise ’Weezie’, al contrario, anche se diventata una ricca e trascurata casalinga (in 1.3 il sagace marito le dirà «È inutile che tu stia qui a grattarti: devi imparare a perdere tempo come una vera signora. Il tuo compito è imparare a divertirti, che ti diverta o no»), è in pace col mondo, eccetto per quello che riguarda il suo rapporto con l’anziana suocera, Olivia, da tutti conosciuta come Mamma Jefferson (matriarca che ha cresciuto i figli da sola e mantiene un forte ascendente su George, relazione che si basa su una sorta di ricatto emotivo, almeno inizialmente). George e Weezie hanno un solo figlio, Lionel, ventiduenne studente di ingegneria, vanto del padre tranne che per la sua storia d’amore con Jenny, una tenera ragazza nera, ma figlia di una coppia mista («Viene da una famiglia mista e balorda, è normale che abbia le idee confuse», 2.15) composta dal bianco Tom e dalla nera Helen, entrambi con buon pedigree, persone a modo e amici di Louise, ma ben poco di George (in particolare Helen che in 1.8 dirà che «Questo è un Paese libero, anche per i cretini»). Il cerchio è chiuso da Bentley, vicino inglese assai bianco e simpatico che vive in un mondo tutto suo, un po’ come qualsiasi isolano, traduttore all’ONU, senza ovviamente dimenticarsi della già citata Florence, domestica anche lei molto sui generis, pigra e incapace di portare rispetto, sempre lamentosa perché non vuole essere trattata da schiava, protagonista di un rapporto di reciproco e divertente odio che la lega al signor George.
Per ogni dove si sente strisciare il tema scottante del razzismo e dell’integrazione che, però, attraverso un certo equilibrio sull’intelligenza, mostra le mancanze da una parte come dall’altra, in una serie dove tutto ruota intorno a George, il cui sguardo imprenditoriale è sempre rivolto al futuro e all’immaginazione, mentre sfoggia una fantasia altrettanto florida quando si tratta di rimanere ancorato al passato: in entrambi i casi mostra di possedere i caratteri dell’americano medio, tra Arcibaldo e l’Homer dei Simpson, cosicché il nero diventa un colore al pari del bianco e del giallo, diversi eppure tutti uguali, perché completamente americani.
L’energia nelle sit-com nasce dagli attriti tra i personaggi e dall’incontro-scontro tra le loro personalità. E George Jefferson dispone di una carica invidiabile che lo fa strillare e dimenare a piè sospinto, stressato capo d’azienda e lavoratore che non conosce pause, carico come le molle che animano tanti personaggi dei cartoni animati e, sotto questo punto di vista, incontro tra due figure create dalla Disney, ossia le due facce contrapposte dell’uomo americano: un po’ di Zio Paperone con qualcosa di Paperino, riunendo pertanto la parte ingenua e inconcludente a quella spilorcia e attenta all’accumulo delle ricchezze (eppure, nel caso specifico, generosa verso le associazioni dei neri), attaccata al passato ma con un occhio che guarda al futuro e a un progresso, buono o cattivo che sia, comunque legato al denaro. Ma George si trova in ogni modo preso in mezzo, come tra Weezie e la madre, individuo fermo sulle sue posizioni e apparentemente incapace di mediare, tuttavia sballottato a destra e sinistra dalla realtà che lo circonda e che sembra andare da tutt’altra parte, quella di una convivenza pacifica. Esemplare diviene quindi il personaggio di Bentley: traduttore in modo particolare dal russo, incarna un tramite e una sorta di comunione con quel mondo lontano (senza tacere qui il fatto che proprio la Gran Bretagna è stata, al pari degli USA, acerrima nemica dell’URSS), giungendo fino a presentare ai Jefferson un’amica russa, emblema questo della distensione nei rapporti tra le potenze contrapposte che attraversò gli anni Settanta.
Ciò nonostante è possibile che la ragione si trovi dalla parte di George e del suo parlare diretto e politicamente scorretto (2.12: «Guardate i fatti: le donne votano dal 1920. E da allora, ditemi, quante donne presidente sono state elette?». «Nessuna». «Per chi votano le donne? Per i ricchi bianchi!»): dunque i neri coi neri, i bianchi coi bianchi. Anche perché i Willis non hanno messo al mondo solamente Jenny, ma anche il bianco (!) Allan (che presenta tutti i difetti dei bianchi, a sentire la sorella), senza riuscire perciò a fondersi completamente, ma rimanendo come separati, prefigurazione dell’America a venire. Però Allan, pieno d’amore per la sorella ma conscio di essere più fortunato di lei, spingerà Jenny ad ammettere un fondamentale «Perché proprio lui?» che la ragazza bagnerà di lacrime, necessarie per affrontare la questione senza rimuoverla, piuttosto accettandola per poterla meglio contrastare. Lacrime e rabbia che non compariranno più nelle sit-com nere dagli anni Ottanta in poi, nel periodo della rimozione di molte problematiche.
Il nero di un George Jefferson, il bianco di un Arcibaldo, il giallo sovrappeso di Homer Jay Simpson: tanti sono i colori della bandiera americana.
Ma è comunque necessario fare i conti con quella parola così vituperabile – ’negro’ – e con l’utilizzo che se ne fa all’interno de I Jefferson, riportando il dialogo che nell’episodio 1.7 vede di fronte lo Zio Ward e Lionel. Zio Ward è un parente di Louise disprezzato da George e dal giovane Jefferson a causa di una vita spesa come maggiordomo presso un signore bianco e per questo da loro considerato come un novello servo incapace di emanciparsi, tanto che lo hanno soprannominato ’Zio Tom’, a loro parere simbolo dello schiavo contento di essere tale (laddove Zio Ward spiegherà a George che il vero Tom era un uomo coraggioso che fece molto per la comunità dei neri). «Lionel, so che mi credi un negro all’antica, forse un po’ troppo remissivo, però non sai che ai miei tempi, là da dove sono venuto io, essere remissivo era l’unico modo per sopravvivere per noi, capisci?». «Sì, ma qui la storia antica non serve a nessuno» [...] «Se non fosse stato per noi negri all’antica, voi giovani spacconi oggi direste ancora ’Sì, badrone’. Io ricordo un tempo quando noi negri...». «Ah, ’neri’...». «Senti Lionel, ci sono voluti duecento anni per passare da schiavi a ’gente di colore’ e altri venticinque ne abbiamo impiegati per passare da gente di colore a ’negri’: quindi scusami se non ti chiamo ancora ’nero’ e cerca di capire che io non ne ho colpa».
Helen Willis in 2.10 dirà che «Dobbiamo contare sulla prossima generazione»: sarà questa una vana speranza, un desiderio che potrà essere esaudito in chissà quale lontano domani? Forse l’unico scandalo, però, sarà sempre e comunque uno solo: che i neri possono essere come i bianchi, pregi e difetti compresi, e che anche loro hanno il diritto di prendersi un pezzetto del Sogno Americano.
