Tele Remake - Bates Motel

Fossimo al cinema, saluteremo l’arrivo di un nuovo film intitolato Bates Motel come ennesimo segno della progressiva e irreversibile crisi di idee in cui versa l’industria hollywoodiana.
Si potrebbe, in effetti, imbastire una recensione ad una pellicola che narra gli antefatti di Psycho senza guardarne un fotogramma, basandosi magari solo sulla visione veloce di una locandina e la lettura altrettanto rapida di una sinossi di quelle che stanno negli uffici stampa a incuriosire i giornalisti.
Tanto poi si sa che il cinema americano, quello legato alla formula aurea dello sfruttamento commerciale di un meccanismo collaudato, è talmente ripetitivo nel seguire ligio le regole della catena di montaggio da non lasciar speranza all’espressione anche solo di sporadici guizzi di fantasia.
Bates Motel, però, non è cinema. È televisione. E negli ultimi tempi la televisione è stata prodiga di sorprese, spazio di sperimentazioni, punto d’arrivo di poetiche autoriali che hanno trovato nello spazio franco del racconto seriale un terreno stranamente fertile. Ci viene difficile, quindi, mettere mano a Bates Motel con lo sguardo offuscato da quel pregiudizio che ci accompagnerebbe invece in sala.
L’inizio della serie promette, in effetti, qualcosa. Che poi non lo mantenga è fatalmente un altro discorso… ma procediamo con ordine.
Bates Motel comincia all’insegna di un fruttuoso offuscamento percettivo che è stranamente metadiscorsivo.
Norman, ancora ragazzo, si risveglia da un sonno strano e, disorientato, va subito in cerca della madre. La macchina da presa lo segue per la casa vuota imitandone l’andatura zoppicante, facendosi carico dei suoi giramenti di testa fino alla scoperta, in cantina, del cadavere del padre. Da questo antefatto luttuoso prende corpo il gioco di ipotesi messo in campo della serie nata sotto l’egida della A&E.
La sequenza ha un andamento da raccordo falsato. Ci mette di fronte all’adolescenza di un personaggio ultranoto, ma anche di fronte alla consapevolezza che il Norman di questa fiction non è lo stesso pensato da Hitchocock (e Robert Bloch), né lo stesso rifatto in fotocopia da Gus van Sant. Non ha niente a che vedere neanche con i vari Norman dei pochi infelici seguiti di Psycho che pure si divertivano a sperimentare soluzioni visive su un copione che non permetteva ripetizioni originali.
Il Norman televisivo, in realtà, è figlio dei nostri giorni anche se tutta la prima sequenza, nella sua dinamica di raccordo, è giocata su un’imprecisa collocazione temporale dal momento che mancano dettagli significativi che ci permettano una precisa collocazione temporale del narrato.
Per tutti i primi dieci minuti di visione lo spettatore riesce davvero a pensare che quello che sta vedendo ha luogo negli anni ’60. Poi la visione di un telefonino fuga ogni dubbio circa la contemporaneità della vicenda presentata.
L’offuscamento di visione del personaggio è, quindi, funzionale a garantire un link con l’immagine di Pyscho e, al tempo stesso, è espressione del desiderio di andare oltre quella stessa immagine, di muoversi in una direzione nuova, di scavare nel fotogramma in cerca di spazi di espressione nuovi.
Bates Motel è quindi, prequel e reboot al tempo stesso. Ricompone mentre impagina, gioca di false piste con le aspettative dello spettatore e cerca la sua strada nel terreno scivoloso della contemporaneità.
Da questo punto di vista, Norman nella sua schizofrenia conclamata si presta efficacemente a divenire simbolo della nevrosi contemporanea, ma conserva anche un aspetto retrò che in certi punti stona a rende poco digeribili certe soluzioni di raccordo.
Se tutto il segmento scolastico ci pare funzionale a definire il background del personaggio e fornisce anche il destro ad una riflessione sulle difficoltà della scuola non solo americana a confrontarsi con adolescenti disturbati, meno funzionale e, anzi, disturbante, il versante mafioso e le storie di sfruttamento della prostituzione che sembrano nascere più dal bisogno di rimpolpare una narrazione altrimenti troppo povera di colpi di scena.
Anzi forse il motivo dell’insuccesso estetico di questa operazione sta proprio in questo: nel cercare di ridefinire il personaggio in chiave contemporanea, la serie sembra mossa dal timor panico della stasi narrativa dimenticando che è proprio nella stasi, nella placida stagnazione di ogni possibilità di racconto che prendeva corpo la ben più disturbante mostruosità del personaggio hitchcockiano.
Resta alla fine qualche suggestione narrativa azzeccata e l’accuratissimo lavoro di cesello di Freddie Highmore che costruisce il suo Norman sulla rilettura e l’interiorizzazione dei gesti di Anthony Perkins in una chiave spiccatamente personale.
