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Tele Remake - Dallas

Pubblicato il 6 novembre 2012 da Alessandro Izzi


Tele Remake - Dallas

Forse è vero.
Forse il Dallas degli anni ’80 è stato davvero l’incarnazione dell’inizio dell’era berlusconiana. Sicuramente, col suo glamour spiccio, con la rappresentazione squarciona, ma approssimativa, di un clan arricchito, con la sua esibizione di dinamiche sessuali viste sempre come motore primo di interessi anche economici, la vecchia serie ha davvero rappresentato l’inizio di quell’era di disimpegno la cui portata arriva, in onda stanca, sino all’oggi.

Come sempre avviene, anche la piccola rivoluzione culturale di Dallas poggiava sul recupero di un ingranaggio vecchio messo a funzionare in un sistema nuovo. Dallas era stato, infatti, inzialmente acquistato da Raiuno, ma aveva abbondantemente deluso in termini di ascolto. L’audience Rai, ancora abituata ad una televisione generalista educata ed edulcorata, mal intese un prodotto rampante e dinamico che metteva in campo dinamiche familiari distorte e intrighi a gogò. Se poteva ancora accettare la nuova centralità di un villain inteso come antieroe dei nostri giorni, faticava, però, a digerire la lunga distanza della rappresentazione di un «bene» sempre flebile, sempre a mezza voce e sempre pronto ad essere sviato dal suo giusto proposito.
Dallas, in fondo, era una serie troppo aggressiva per la Rai di trenta anni fa. Così, complice anche un errore di programmazione che scombussolò l’ordine degli episodi rendendo lo spettatore inabile a raccapezzarsi della cronologia degli eventi, la sua programmazione chiuse i battenti a neanche metà della prima stagione.
Furono proprio le reti commerciali, a quel punto, a definirsi come contesto ideale della serie. Canale 5, all’epoca a caccia di riempitivi per la propria programmazione ancora costruita coi resti dei rigattieri, acquisì i diritti di trasmissione e nel fece un evento di punta. Pubblicizzò Dallas come gli stessi protagonisti della serie si sarebbero pubblicizzati: con arroganza e sicumera. E il gran spolvero della prima serata fu riempito con le finte ricchezze del sistema televisivo, con le giacche buone e i calici di plastica che fingevano a stento tintinnii di cristallo.

Dallas era più falso che non si poteva, ma quella falsità te la spiaccicava in faccia, te la imponeva tutta a suon di grancassa e riempiva i vuoti delle famiglie che ancora non abbandonavano (come avrebbero fatto anni dopo) il rito di riunirsi, dopo cena, davanti all’unico apparecchio televisivo che al tempo potevano permettersi, per distrarsi insieme.
Dallas ambiva alla perfezione olimpica di una formula: scandalizzava e lasciava il tempo per far parlare di sé. La dinamica del talk show si metteva alla prova nel salotto di casa. La scena clou si consumava tra commenti proferiti a mezza voce davanti all’apparecchio televisivo mentre la pausa pubblicitaria dava agio a tutti i convenuti al rito di trasformarsi in pronti opinionisti. I discorsi potevano poi procedere comodi nei supermercati, o nelle sale d’attesa di medici e parrucchiere. Sì, perché Dallas arruolava il suo pubblico prevalentemente nell’ambito sociale delle casalinghe, di coloro che restavano a casa quasi tutto il giorno e amavano la compagnia dell’apparecchio televisivo acceso mentre sfaccendavano.
La definizione delle nuove coscienze dell’italiano medio cominciava tutta qui.

Forti di queste considerazioni, ci vien facile pensare che, se il successo di Dallas fu il sintomo dell’affermarsi di un nuovo contesto sociale, l’insuccesso, tutto italiano, del suo sequel appena passato su Canale 5 (e la cui programmazione è già stata sospesa) sia il segno della fine di quell’era.
In America il nuovo Dallas ha avuto ascolti lusinghieri. Forse non miracolosi, ma di un certo impatto. E anche la critica ha speso parole entusiastiche per un prodotto che, si dice, trova un giusto equilibrio tra la vecchia generazione (vengono riconfermati alcuni attori principali della vecchia serie come Patrik Duffy, Linda Gray e il sospirato Larry Hagman) e la nuova (Josh Henderson e Jesse Metcalfe).
L’arrivismo e la brama di potere restano gli stessi della vecchia serie e, a guardare le prime due puntate, si arriva anche a capire il perché del relativo successo del prodotto.
L’aggiornamento del racconto ai tempi della crisi passa, infatti, per preoccupazioni sincere come il bisogno di nuove fonti di energia a fronte dello strapotere del petrolio o come l’affermarsi di ansie ecologiste che hanno un peso non indifferente nella definizione dell’intreccio. Allo stesso modo l’idea di come dietro all’ideale di un modello di vita diverso venduto ai più sprovveduti possano nascondersi ancora le mire dei potenti sono segno di un’America meno ingenua e più consapevole a livello politico.
Insomma quel che colpisce nella nuova Dallas, che comincia in pieno stile Padrino con J.R. messo a capo (occulto) di interessi di famiglia, è proprio il suo desiderio di uscire dalle dinamiche del privato (più centrali nella vecchia serie) per sporcarsi le mani nel dibattito pubblico con la franca rappresentazione di un’America desiderosa di cambiamento, ma ancora troppo invischiata di petrolio e soldi.

Forse è proprio questa complessità appena abbozzata a segnare i motivi del disinteresse per il pubblico italiano.
Anche se il racconto è pieno di sesso, intrigo e bieche mire, esso è però settato per una narrazione che qui non ha più un pubblico.
I vecchi spettatori della prima Dallas sono ormai assuefatti alla televisione salotto del Talk show, mentre le nuove generazioni, cresciute a fiction come I Cesaroni, hanno bisogno che un messaggio gli venga enfaticamente ripetuto su tutti i registri possibili del narrare così da potersi distrarre ad ogni tot senza perdere porzioni importanti di racconto.
Per loro un prodotto come Dallas ha un look giovane, ma parla vecchio come un dinosauro.


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