Televisionarietà - La fabbrica dei tedeschi

Sette dicembre 2008, anniversario del drammatico incidente alla linea 5 dell’acciaieria Thyssen Krupp di Torino. Sette operai morti durante uno spaventoso incendio, estesosi tragicamente a causa della carenza delle necessarie misure di sicurezza nel capannone della fabbrica in dismissione. Come d’abitudine, i telegiornali di tutte le reti, in chiaro e satellitari, hanno dedicato servizi-memoria all’accaduto, commenti ed editoriali, immagini di repertorio. Sincere lacrime, ma forse troppo rituali nella forma. Chi si è spinto un po’ oltre il semplice omaggio di trenta secondi agli innocenti caduti, è La7. Durante la trasmissione L’Infedele, è stato infatti messo in onda, subito dopo il dibattito condotto dal Gad Lerner, il documentario di Mimmo Calopresti, La fabbrica dei Tedeschi. Proporre un documentario d’autore per raccontare quella tragedia è stata di certo una scelta virtuosa da parte della rete, un modo differente di affrontare un problema molto grave come le “morti bianche”, che è stato oggetto di numerosi lavori cinematografici recenti (sulla stessa tematica come Thyssenkrupp Blues di Monica Repetto e Pietro Balla, ma pure sul discorso nella sua totalità come Morire di lavoro di Daniele Segre). La scelta può sembrare semplice opportunità: c’è l’anniversario, c’è il film, si uniscono le cose per avere un dibattito migliore. Probabilmente il punto di partenza è stato questo, ma il risultato in realtà va ben oltre la mera logica di palinsesto. Scegliendo un formato diverso da quello prettamente televisivo, si è andati a lavorare profondamente sul piano emozionale. L’empatia che produce un film pensato per il cinema, è di certo maggiore di quella di un servizio giornalistico, sia esso un semplice “ricordo” o anche un’inchiesta. È differente infatti la cornice, il contenitore. Il telegiornale è il mondo delle notizie, quelle che nei nostri tempi si macinano ogni ora, ogni edizione, scorrendo addosso a chi guarda senza far presa, che fanno compagnia alle persone che intanto continuano le proprie occupazioni abituali. Un film di circa 90 minuti come quello di Calopresti, costringe invece all’attenzione, alla partecipazione e supera il confine della semplice informazione, entrando nella sfera emotiva dello spettatore.
La fabbrica dei Tedeschi, dopo una minima distribuzione in sala, torna quindi all’attenzione del pubblico in prima serata e colpisce per la sua intensa ma discreta partecipazione. Introdotto da sette ritratti dei familiari delle vittime, interpretati da attori professionisti, il lavoro del regista calabrese si trasforma in vero documentario quando comincia a ricostruire la tremenda vicenda. Poche però, le scene all’interno della fabbrica, nessuna immagine del rogo, tanto spazio alle testimonianze dei parenti che si sono prestati a raccontare con commozione la propria vita senza i loro cari scomparsi. Forse non il miglior film di Calopresti, molto concentrato sui primi piani dei volti sofferenti, dei bei ricordi, delle belle parole per chi purtroppo non c’è più; molto meno interessato a comprendere i motivi dell’incidente, le responsabilità. Ma probabilmente non era quello il suo scopo. Quello che risalta maggiormente è infatti che La fabbrica dei tedeschi non è e non vuole essere un’inchiesta, o una denuncia gridata. È molto di più un rispettoso narrare il dolore, una goccia di limone su una ferita aperta, che brucia forte e che non si può lenire. La domanda più ricorrente che si pongono gli intervistati è: “Perché?”, ma la risposta che più si sente è il silenzio. Un silenzio che il regista lascia in sospeso, senza riempirne il vuoto, lasciandolo colmare dallo spettatore, pieno di rabbia e incredulità.
