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Televisionarietà – Sanctuary

Pubblicato il 25 maggio 2011 da Marco Di Cesare


Televisionarietà – Sanctuary

A essere sinceri nel caso di questa produzione canadese più che di ’Televisionarietà’ si dovrebbe forse parlare di ’Webvisionarietà’, essendo Sanctuary nata prima su internet come programma a pagamento, otto webisodi da un quarto d’ora e poco più di durata che nel 2007 riscossero un largo successo di pubblico sul sito del canale SyFy. Ma, più che di un esperimento, d’altro canto potrebbe essersi trattato solamente di un espediente di marketing per sondare il terreno, con la speranza di poter poi approdare in televisione, sempre che non sia stata questa la meta principale fin dall’inizio. Fatto è che a quel punto il passo successivo, breve ma non troppo, è stato quello di espandere il progetto, adattandolo a uno schermo generalmente meno piccolo di quello del computer: così è nata la prima serie tv tratta da una realizzata per il web, dopo l’intervento sui brevi video tipici del media internettiano e mantenendo solo alcune scene e sequenze per realizzare una serialità lunga composta di parti da quarantacinque minuti. Il debutto dei tredici episodi della prima stagione è avvenuto nel 2008 sul canale SyFy (ottenendo un certo seguito, come confermato dal fatto che la produzione è giunta alla terza stagione), giungendo ora sullo schermo di Rai 4, dopo essere passata su Mediaset Premium dal dicembre del 2009.

Nonostante il lavoro che lo ha preceduto, nonostante il richiamo nei confronti del passato, la creatura di Damian Kindler (già sceneggiatore di Stargate SG-1 e Stargate Atlantis) mantiene una sua ambiguità e una certa sfuggevolezza, sospesa come è tra novità e timori verso di queste, classicità, ricerca e cadute di stile, mentre si affida al fantasy, alla fantascienza e, soprattutto, all’horror, il tutto immerso in scenari gotici, comprendendo inoltre aspetti sia patetici che ironici.
È questa la cornice che racchiude le vicende della dottoressa Helen Magnus (Amanda Tapping, la Samantha Carter di Stargate SG-1), una scienziata che a 157 anni ne dimostra quaranta, una cacciatrice di esseri mostruosi che devono essere catturati affinché possano essere ospitati e preservati, anche i più pericolosi, all’interno del ’Santuario’. Nella sua missione la donna verrà aiutata da uno psichiatra forense, Will Zimmerman; dalla figlia Ashley (vent’anni d’età o poco più, ma stavolta senza trucco né inganni), l’elemento del gruppo più abituato all’azione; dal progettista di armi ed esperto informatico Henry Foss e da un Bigfoot, fidato e silenzioso tuttofare.

Ovviamente è proprio la poetica del ’Diverso’ quella che rappresenta il punto focale di Sanctuary, come in tanto genere fantasy e, soprattutto, nell’horror più o meno d’autore. Tale aspetto riceve un trattamento di riguardo nel pilota Un rifugio per tutti (suddiviso in due parti), rimanendo però alquanto schiacciato da un accento fin troppo pesante che dà vita a esiti assai scolastici; è questo un errore che suona del tutto fuori luogo, visto che comunque il progetto è figlio di un lavoro precedente, fatto che avrebbe potuto evitare che durante il processo di espansione si perdesse piuttosto il senso della misura.
Ordunque per taluni si tratta di mostri, per altri di Freaks, di scherzi della natura; ma per la gente del ’Santuario’ e per i loro aiutanti sparsi sul globo si tratta solo di ’Anormali’, «Esperimenti dell’evoluzione» da accogliere come se sull’uscio di casa ci fosse Il favoloso dottor Dolittle ad attenderli. Quindi la difesa della diversità, quella dello straniero che, in quanto tale, non merita che per essere accolto gli venga in cambio chiesto di cambiare; sono atteggiamenti, questi, resi ad ogni modo più facili quando sono messi in atto da individui che a loro modo sono comunque almeno un po’ ’anormali’, come accade nel caso della congrega del Santuario. E la difesa del diverso giunge fino quasi a giustificare una sua reazione che uccide, più o meno inconsapevole e incontrollabile risposta che è «Un meccanismo di difesa con una propria coscienza», figlia della paura che lo circonda, come accade nel caso di Alexei, un bambino ucraino che presenta delle mutazioni genetiche legate al disastro di Černobyl’. Anche qui, però, si procede speditamente verso l’inutile sottolineatura. Così come nel caso del passato di Will che a otto anni ha assistito all’uccisione della madre da parte di un essere mostruoso; ovviamente nessuno gli credette per cui, come gli fa notare Helen, era lui in quei frangenti il diverso. E questa frase aiuterà a vincere le resistenze dell’uomo ad accettare quel lavoro, lui che aveva affermato di fare «profili di criminali, non di mostri», non comprendendo subito l’involontaria autoironia delle proprie parole.

Eppure, nonostante questi difetti iniziali, il lavoro serba già un certo fascino, acuito, almeno all’inizio e quasi paradossalmente, da un utilizzo spasmodico del green screen e dei set virtuali, che realizzano uno straniante effetto fiabesco che causa una scarsissima interazione dei primi piani con gli sfondi, fin quasi alla scissione, in particolare in quelli immersi nella luce soffusa del Santuario mentre, ovviamente, la situazione migliora negli esterni notturni e negli interni più bui, ricreando più l’estetica di un videogioco che di un audiovisivo ripreso dal vivo. Tuttavia, questa estetica della povertà, laddove non diviene fastidiosa, sa incuriosire al pari di certe trovate da B-movie.
D’altra parte, man mano che si procede con la narrazione, il livello generale sale di tono, mentre la sceneggiatura, la regia e il montaggio riescono a realizzare meglio la giusta interazione tra i personaggi, legandoli a ’un tutto’ dominato da concetti più generali, in modo tale da creare una scena più ampia. Uno scenario vasto quanto i concetti di comunità e di appartenenza che vengono affrontati negli ultimi tre episodi trasmessi da Steel. Perché in 1.4, L’uomo flessibile, si può assistere a un continuo gioco tra il significato del ’piegarsi’ e la manipolazione delle menti, la dipendenza dalla droga e il dolore fisico, oltre alla capacità di dar da bere le proprie bugie alla gente, il tutto ambientato in una gang di anormali che vivono in un contesto metropolitano attraversato da una trama noir che può ben far venire alla mente I soliti sospetti. E, ancora, in 1.6 (I nubbini) ci si richiama con una certa divertita ironia a i Gremlins e alle leggi della sopravvivenza secondo la natura, oltre che al vecchio adagio ’Non fidarsi mai delle apparenze’, giocando di sponda con il lato maggiormente patetico della scoperta della anormalità da parte di una ragazza che scopre di avere una malformazione al cervello che la rende una telepate, in modo particolare capace di provare empatia con altri esseri.
Ma è Kush (#1.5) l’episodio più pregnante, oltre che il più drammatico e sanguinario, tra quelli finora trasmessi in Italia, grazie al suo approfondimento dei discorsi sul guardare e sulle apparenze che puntellano un plot dove è facile rintracciare un omaggio a La cosa (sia la versione di Carpenter che quella di Hawks, nonostante queste siano tra loro antitetiche, avendo preferito intraprendere una la rappresentazione della frammentazione e dell’incomunicabilità, l’altra quella dell’unione contro un nemico comune), compresa l’ambientazione in una landa desolatamente innevata (le montagne del Pakistan, in questo caso), sferzata da una terribile tormenta e potendo disporre, come riparo, solo della carcassa di un aereo e della compagnia di un essere tutt’altro che pacifico. Qui, dato il buon equilibrio generale, le sottolineature dello script giungono come postille per nulla imbarazzanti. E, soprattutto, è questo l’episodio che più di tutti mostra quello che già a questo punto apparirebbe come il vero sottotesto di Sanctuary: ossia che, nonostante tutto, la convivenza e la coesistenza, sebbene siano sicuramente le esperienze umane più necessarie e fondamentali e nonostante siano di certo tutt’altro che impossibili da realizzarsi, non sono comunque le più facili, come può accadere in una serie dove gli individui non sempre riescono a comunicare con lo sfondo (materico e sociale) che hanno intorno, come se ci fosse un green screen eternamente dipinto dietro di loro.


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