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Televisionarietà – The Listener

Pubblicato il 5 aprile 2009 da Marco Di Cesare


Televisionarietà – The Listener

Every chance,
every chance that I take
I take it on the road
Those kilometres and the red lights
I was always looking left and right
Oh, but I’m always crashing
in the same car

(Always Crashing In The Same Car, David Bowie 1977)

Angeli caduti e risorti che vegliano sulla vita della metropoli e partecipano alle sventure come ai piccoli dolori di uomini e donne, per confrontarsi innanzitutto con sé stessi: la città come luogo, la Berlino del 1977 che è uno stato della mente affranta e rassegnata di Bowie e che diviene un paesaggio anche fisico nel 1987 di Wim Wenders, un incontro di linee e forme, di pensieri e di voci, di bianco e nero e di colori, pochi attimi prima che un Muro finalmente crolli, avverando la possibilità e il sogno della messa in comunicazione e dell’unione tra due mondi lontani.
Altri dieci anni occorrono, però, per percorrere nuovamente la circonferenza che rinchiude le città nei sussurri e nelle grida. Fino a giungere alla New York triste, folle, inquietante e piena di colori di Scorsese e Paul Schrader, di nuovo religiosi (Taxi) Driver in Al di là della vita, vent’anni dopo, in un 1999 che vede il paramedico in gabbia Nicolas Cage Bringing Out the Dead, un uomo memore di essere stato, poco tempo prima, l’angelo Seth della City of Angels, nel fin troppo terreno remake de Il cielo sopra Berlino: chiudere il cerchio, «Going round and round», «Always crashing in the same car». Un Cage / Frank Pierce che con Scorsese è intento a battere comunque incessantemente la stessa strada in una New York dove i bagliori forzati e innaturalistici di Robert Richardson ogni notte bombardano lo sguardo e la mente di chi li incrocia - «Those kilometres and the red lights» - mentre sulla strada prendono vita i volti di chi non si è riusciti a salvare.

Bringing Out the Dead, Al di là della vita fisica e materiale, portando a galla i pensieri sepolti nelle menti che ci circondano: dieci anni ancora e Toby Logan (Craig Olejnik), giovane paramedico venticinquenne di Toronto, si sentirà come accerchiato dalle voci interiori di chi ha intorno. «Vi chiedete mai cosa pensa la gente? Io no, perché lo so. Il difficile non è captare i pensieri degli altri, il difficile è farli smettere: io cerco di farlo da tutta una vita, da molto prima di sentire la parola ’telepatia’. Ma se Dio ti ha dato la tv via cavo, tanto vale fare zapping!». Sono queste le parole che dominano i fotogrammi iniziali di Un dono speciale, la prima puntata di The Listener, frasi pronunciate dal protagonista che osserva la città dall’alto, immediatamente colto poi mentre cammina fra la gente, come un angelo che si è fatto umano, sotto una luce dalla dominante estremamente gialla che proviene da un cielo che a volte verrà persino sovraesposto, secondo la politica di una fotografia intenta a cogliere e rendere visibile la nebulosa indefinita e forse indefinibile dalla quale e nella quale nascono i pensieri, dove le notti non sono così fredde come ci si aspetterebbe in un noir, in cui l’universo non appare oscuro come in C.S.I., o delirante come in Al di là della vita, forse perché in fondo al tunnel vi è in ogni caso una luce, più o meno sovrannaturale. Difatti in 1.7, La Guaritrice (episodio alla fine del quale Toby tuttavia dirà: «Fede: è soltanto un’altra bella parola per pensare positivo») un anziano clochard rivelerà di avere sempre desiderato vedere il cielo fuoco, le luci del nord, quelle che certi popoli antichi chiamavano la danza degli spiriti, ossia l’aurora polare, un fenomeno da molti magari giudicato (in)naturale.

«Looking left and right». Tra molta confusione, alcuni punti fermi come dei lumi spuntano nella vita di Toby. Alla sua sinistra l’amore di un passato recente, la dottoressa Olivia Fawcett (Mylene Robic), con la quale ogni tanto si trova ancora gomito a gomito per motivi di lavoro, oltre che di amicizia. E, a destra, l’affascinante detective Charlie Marks (Lisa Marcos), classico appoggio per Toby all’interno del distretto di polizia: donna che lo comprende senza riuscirci fino in fondo, algida e nascosta, forte e delicata e con un incedere un po’ da maschio in jeans e stivali, personaggio non lontano dal tenente Murphy di The Dresden Files (una serie detective-fantasy la cui prima e ultima stagione ha ben figurato sugli schermi un anno fa) o, anche, dell’inquieta Sara Sidle / Jorja Fox di C.S.I., pur se tuttavia la Marks appare di certo molto meno tormentata, adeguandosi così al tono generale di The Listener. Inoltre, accanto a sé Toby ha soprattutto un fido compagno di lavoro: l’amico Osman (Ennis Esmer), un simpatico ragazzo, sovrappeso ma non troppo, cui spettano gli inserti forse meglio riusciti, ovvero i frequenti siparietti, divertenti e senza alcun eccesso. Mentre, intanto, dallo sfondo ogni tanto affiora il mentore di Toby, il professore Ray Mercer, interpretato da Colm Feore (dieci anni fa il Dr. Jordan Ferris in City of Angels: di nuovo lo stesso cerchio, «Always...» «... round and round», in un moto senza movimento).

«Every chance that I take, I take it on the road»: qualsiasi possibilità di rinascere la si può incontrare lungo una strada lastricata da chilometri di incertezze. Ma, mentre in Al di là della vita Frank Pierce afferma di aver compreso che il suo compito non è tanto quello di salvare vite, quanto quello di essere testimone – come gli angeli di Wenders - Toby Logan si indirizza lunga una linea conduttrice che fende la nebulosa delle fruttuose sensazioni contrastanti, attraversandola assieme a doti investigative che, però, presentano quasi sempre aspetti troppo regolari e prevedibili. Perché l’aggiunta, comunque interessante, dell’elemento paranormale alla tipica commistione di medical e crime rappresenta una irrazionalità che fagocita la razionalità più estrema, senza perciò creare alcun conflitto drammaturgicamente fecondo. Ciò concorre a dare vita a una irritante monodimensionalità, particolarmente forte soprattutto nei primi tre episodi, i quali presentano intrecci dove tutto è prefigurato e convenzionale, donando la medesima sensazione di déjà vu provata da chi è prigioniero, «Always crashing in the same car».
È come se fin troppo fosse stato perso nel passaggio dall’astratto al visibile, dal concetto alla parola e all’immagine, a causa delle numerose incertezze legate alle modalità per affrontare la narrazione ai tempi della serialità. Una serialità composta, nello specifico, di parti che durano quaranta brevi minuti e dove l’azione scorre veloce e spesso frenetica, rapida come il pensiero, trionfo della comunicazione involontaria, casuale come le psicologie che si ripiegano su sé stesse e assumono lo spessore di una linea.

Fortunatamente la situazione migliora col procedere delle puntate, sebbene ci si attesti ancora su livelli ben lontani dal miracoloso.
Intanto The Listener viene trasmesso in contemporanea e in prima visione assoluta in 180 Paesi dai canali Fox, dalla NBC negli Stati Uniti e dalla CTV in Canada, secondo un esperimento che per Aldo Grasso segna «una sorta di condivisione globale nel tentativo di trasferire sull’etere alcuni meccanismi tipici della rete» proprio nell’anno precedente a quello che, in base a uno studio della Microsoft, segnerà il sorpasso di internet ai danni della Tv tradizionale.


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