Fiction Italia - Titanic: Nascita di una leggenda

Quando la Rai (ma non solo) scrive una fiction coniugando i verbi al passato non troppo lontano del secolo scorso, normalmente tende, indipendentemente dalla storia raccontata, ad omologare le immagini di cui si compone ad un immaginario iconografico ampiamente riconoscibile e già “posseduto” dallo spettatore medio. Si tratta di una scelta rassicurante volta a confortare un pubblico che non ama essere messo di fronte alle sue lacune, ma che preferisce, piuttosto, essere confermato nelle sue competenze. Lo spettatore deve essere, nel verbo di una corretta strategia comunicativa volta alla vendita di un prodotto, messo nella condizione di poter pensare che quello che conosce (pur se poco) è ciò che vale la pena conoscere, ciò che serve a farsi un’idea precisa e circostanziata sul Reale (anche se tale Reale è desunto dalle pagine di Storia). Se qualcosa manca, a questo spectator in fabula, esso è da ricercarsi nel dettaglio e non nel quadro di insieme, nella nozione e non nelle grandi linee dei concetti fondamentali. Per questo una fiction, pur potendo abbondare in narrazioni anche elaborate (ma che facciano, però, sempre riferimento, a quadri comuni e a situazioni narrative basiche scatenate da contrasti chiaroscurali di amore e odio), deve essere sempre, in qualsiasi punto la si guardi, immediatamente identificabile se non altro a livello visivo.
Il lavoro di composizione del quadro è sempre orientato al recupero quanto più possibile preciso di un vero e proprio déja vu nel quale il pubblico possa riconoscere quanto già esperito con successo in altri ambiti siano essi fotografici, cinematografici o pittorici (e siamo ad un livello decisamente più alto).
Titanic – nascita di una leggenda parte, da questo punto di vista, notevolmente avvantaggiata rispetto ad altre esperienze diverse eppure sempre uguali. L’intero immaginario spettatoriale, non solo italiano (e di qui le grandi speranze di vendibilità del prodotto, ma anche i rischi che possono derivare dal rivolgersi ad un mercato dell’immaginario al fondo già saturo di analoghe operazioni) è già abitato da foto, ricordi, ritratti che arrivano dritti dritti dal Titanic di Cameron che è un film, anch’esso, dominato da una vocazione al recupero enciclopedico delle immagini dell’immane catastrofe che aggiornò, al mondo contemporaneo, il mito greco di Icaro.
L’originalità di questa operazione RAI, rispetto al novero di altre e più scolastiche trasposizioni, sta in un improvviso anelito di metaconsapevolezza che volenti o nolenti sta alle basi stesse del progetto, condizionandone non poco gli esiti. Mentre, infatti, altre fiction storiche giocano con un immaginario preesistente vissuto come fonte da cui attingere in vista di una presunta correttezza storica, Titanic – nascita di una leggenda, concentrando la sua attenzione sul prima della tragedia e, quindi, sulla costruzione della nave, finisce paradossalmente per parlare, in primo luogo, della costruzione stessa di un’immagine.
L’intera fiction finisce, così, per essere qualcosa di inedito. Non il racconto di una tragedia, ma il backstage di una tragedia, il racconto di un percorso la cui fine è tragicamente nota.
Al centro del discorso iconografico vi è, quindi, la descrizione del complesso lavorio necessario alla costruzione di un’icona. Un lavorio, questo, che coinvolge sia la fatica fisica degli operai che assorbono una buona fetta della narrazione con visioni dettagliate dei cantieri e delle operazioni necessarie a forgiare il mito, sia il lavoro pubblicitario che è stato necessario affinché del Titanic si cominciasse a parlare prima ancora della sua stessa messa a mare.
In questa prospettiva l’immagine, nel ricercare le sue stesse radici, finisce per sporcarsi le mani di ferro, sudore e grasso. La macchina da presa scende in quei meandri del lavoro duro, lercio e mal pagato cui Cameron aveva alluso continuamente, ma che solo a tratti aveva fatto concreto oggetto di visione.
Se la descrizione delle lotte sociali, degli scioperi, dei conflitti tra classi (e, in misura inedita, tra credi religiosi che mettono l’un contro l’altro cattolicesimo e protestantesimo sullo sfondo di una Belfast ricreata prevalentemente in Serbia) appare, al fondo, un poco scolastica, la fiction trova la sua vera ragion d’essere nel desiderio di penetrare lo strato dell’immagine in cerca di una verità fattuale più concreta, più materica. Non a caso il protagonista dell’opera è un chimico dei metalli che utilizza, per necessità d’indagine, strumenti come il microscopio, si avvale del lavoro di un’abile disegnatrice (con cui intreccerà un legame importante e interclassista) per riportare, del Titanic che ancora non esiste, le immagini non viste: le sue parti costituenti, sotto l’occhio astratto della lente d’ingrandimento. Inoltre il suo è un lavoro che lo obbliga a stare a stretto contatto con gli operai più burberi, con uomini abituati a formare navi a suon di martelli su lastre d’acciaio incandescenti.
L’operazione è portata avanti con una certa consapevolezza teorica a tratti suicida visto che ci racconta di come la tragedia sia stata agevolata da una necessità dei costruttori di risparmiare sul materiale, ma risparmia a sua volta andandosi a cercare locations e soluzioni produttive più economiche (scelta del resto resa ancor più comprensibile del periodo di crisi nel quale versiamo). Ma urta contro l’iceberg delle aspettative di un pubblico affamato di affondamento. Proprio il materiale iconografico sul Titanic, del quale siamo saturi e che concerne prevalentemente, appunto, la sua stessa fine, porta lo spettatore medio ad aspettarsi di vedere la catastrofe e non lo scheletro di uno scafo in costruzione. Proprio quello spettatore potrebbe, purtroppo, stancarsi di una storia di lotte sindacali (e di scontri culturali e religiosi) che appare, ahinoi, più attuale che mai.
