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Venezia 71 - Terre Battue - Terra battuta

Pubblicato il 30 agosto 2014 da Alessandro Izzi

VOTO:

Venezia 71 - Terre Battue - Terra battuta

L’homo homini lupus è la norma del nostro inferno quotidiano. L’intero sistema capitalistico si fonda su questa visione del mondo che, però, si maschera con la lana d’agnello del politically correct.
Anche quando ci facciamo le docce con l’acqua gelata per sensibilizzare la nostra pelle all’orrore della malattia, in realtà assecondiamo poco più che un desiderio narcisistico.
In fondo il modello culturale vincente oggi somiglia terribilmente a una partita a tennis, nella quale siamo soli contro l’avversario e in cui il nostro imperativo è avanzare a rete prima che lo faccia l’altro. Perché possiamo star certi che l’altro lo farà, se appena gliene diamo l’occasione.
Così misuriamo il nostro successo sulla base di ideali quali professione, soldi, riconoscimento sociale e facciamo finta di non vedere chi calpestiamo per perseguire i nostri fini. Molto peggio: siamo talmente abituati a questa menzogna che ci ripetiamo ogni mattina, che proprio non guardiamo più a terra e se lo facessimo, invece che cadaveri, vedremo appena niente più che terre battue, terra battuta.

L’apologo composto da Stéphane Demoustier è di una semplicità disarmante ed ha la stessa rigida compostezza di un doppio da tennis in cui già si sa sin dall’inizio chi è destinato a perdere.
Da una parte ci sono padre e figlio che giocano come meglio possono le carte che il destino ha dato loro in dote. Dall’altra il mondo che imperterrito risponde a colpi di racchetta con la stessa furia meccanica di una macchina lancia palle.
Il padre era un dirigente d’azienda costretto a lasciare il posto di lavoro. Troppo in là con gli anni per rimettersi in gioco in un mondo che cambia tanto in fretta, è però fermo nella convinzione di voler lavorare in proprio, cercando un modello produttivo capace di fare concorrenza addirittura agli ultraeconomici cinesi.
Il figlio è un ragazzino disarmato come tutti i suoi coetanei, ma ugualmente intenzionato a cercare una sua affermazione nei campionati di tennis. Il padre l’ha educato al verbo del successo e per tutto il film lo sprona ad essere proprio come lui, pronto all’azione, aggressivo e spavaldo.
I due si alternano alla rete con un rapporto di cameratesca consuetudine dalla quale escludono tutti gli altri. Non arrivando ad accorgersi se non quando è troppo tardi che, in fondo, stanno giocando non insieme, ma uno contro l’altro.
Del resto il tennis non è come il calcio che ha bisogno di lavoro coeso di una squadra, né è come la maratona in cui si è più soli con se stessi anche nelle gare contro gli altri, piuttosto è una forma di lotta civilizzata in cui uno deve soccombere perché l’altro possa trionfare.
Uno sport che non solo condanna alla solitudine, ma che deve riempirsi di rabbia se si vuole veramente vincere. E, infatti, il piccolo Ugo comincia a vincere quando la madre se ne va di casa, troppo stanca per i progetti vani del marito. Per lui la vittoria è una forma di risarcimento all’ingiustizia della vita. Una fame che, però, non si placa mai visto che nasce nel desiderio di compiacere più di tutti proprio il padre.

Terre battue si impagina piano sulla paratassi di un campo/controcampo giocato a filo di rete. Un film che inanella episodi di vita ordinaria come fossero piccole partite di tennis, con la stessa freddezza di una telecronaca in cui lo spettatore, seduto a bordo campo, deve limitarsi a seguire, con l’occhio, la corsa della palla da un estremo all’altro del terreno di gioco.
Una dinamica di opposizioni che, stranamente si spezza nei momenti risolutivi a favore di discreti campi medi (l’inquadratura, ad esempio, che sancisce la separazione tra marito e moglie) come a dire che se è vero che la sfida è individuale, nondimeno il fallimento e collettivo e investe il senso stesso del nostro vivere sociale.
In tutto questo a farne le spesse è proprio il bambino, reso incapace a definire un rapporto costruttivo con il reale e sempre più isolato fino a che non è costretto nello spazio prigione dell’ultima inquadratura che lo condanna, per sempre, a stare dall’altro lato del mondo, senza un motivo per lui comprensibile. Qui, in questo piccolo omaggio a Les Quatre cent coups di Truffaut, in questa requisitoria definitivamente senza controcampo, si misura tutto il fallimento della moderna società occidentale.
Una società che impone a tutti il verbo all’imperativo della vittoria, ma non sa più insegnare la cosa più umana, quella di cui alla fine tutti, prima o poi, abbiamo bisogno: come perdere senza dimenticare la strada che ci ha portati fin qui.


CAST & CREDITS

(Terre Battue); Regia: Stéphane Demoustier; sceneggiatura: Stéphane Demoustier, Gaëlle Macé; fotografia: Julien Poupard; montaggio: Damien Maestraggi; interpreti: Olivier Gourmet (Jérôme), Valeria Bruni Tedeschi (Laura), Charles Mérienne (Ugo); produzione: Frédéric Jouve (Les Films Velvet), Marie LecoqCo-produzione, Jean-Pierre e Luc Dardenne (Les Films du Fleuve), Stéphane Demoustier e Guillaume Dreyfus (Année Zéro), Olivier Pére e Rémi Burah (Arte France Cinéma), Arlette Zylberberg (RTBF); origine: Francia, Belgio, 2014; durata: 95’


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