Venezia 71 - The Goob

L’occhio con cui Guy Myhill filma il mondo di The Goob è spesso instabile, caracollante.
Non si concede il riposo statico del cavalletto, né la fluidità meccanica di una steadycam che chiude tutto in quadri geometrici da attraversare con rigida precisione. Piuttosto sobbalza ad ogni asperità del terreno e annaspa con fatica per non perdersi per strada i personaggi del suo dire. Ci sembra quasi di sentirlo ansimare, quest’occhio indocile, per stare dietro ai personaggi che si è scelto, per coglierne i tratti più veri, le essenze più profonde.
The Goob è un film di rapporti e di rotture. È un film scontroso e spigoloso che mette al centro del fotogramma più che l’ansia di crescere di un adolescente come tanti, l’ineluttabilità del suo farsi uomo. Ed è un film che mette intorno a questo personaggio tutte ombre e poca tenerezza, tutta una serie di strade che vanno verso gli altri. Alcune a senso unico, altre più comode, altre ancora senza sbocco alcuno. Tutte altrettanto accidentate di quelle di campagna, altrettanto piene di sassi e con altrettanti buchi su cui è facile inciampare.
The Goob è uno "sweet sixteen" senza tempo, poco connesso al nostro presente eppure fermamente radicato al suo. Un film che mette a fuoco le cose con il grandangolo del mito nella convinzione che anche il primo piano è un paesaggio pieno di balzi e di montagne, con le sue luci e i suoi silenzi, attraversato da ferite che non si rimarginano tanto facilmente.
Nel suo raccontarci la storia piccola di un sedicenne (The Goob, appunto, un eccellente Liam Walpole) che aiuta l’estate nel bar per camionisti di famiglia, che scava nei campi per la raccolta delle zucche e che deve affrontare il compagno della madre che è così viscido da provare a portargli via persino le ragazze, il regista non perde mai di vista il contesto. Anzi mondo e personaggio stanno sulle stesso piano di significazione, non li capisci l’uno senza l’altro. Perché quei boschi mai selvaggi e quei campi da affrontare con la fatica quotidiana sono esattamente come lui, il correlativo oggettivo del suo crescere cui nessun adulto sa o vuole prestare aiuto.
Una campagna che non viene attraversata con spirito malickiano, anche perché manca al regista inglese lo spirito panteistico del regista americano, ma con uno sguardo che rimette sempre al centro l’uomo.
Piuttosto, se proprio vogliamo metterci a caccia di paragoni più o meno fuorvianti, più che a Loach che pure ha dedicato pagine memorabili al tema dell’adolescenza, sarebbe forse da pensare a certi momenti del cinema di Shane Meadows. Soprattutto per la capacità del regista di usare il paesaggio come amplificazione di un malessere esistenziale che ha le tinte dell’horror senza averne la struttura o gli elementi narrativi.
The Goob è un film grezzo come certi diamanti appena strappati dalla terra e altrettanto tagliente. Soprattutto come il suo protagonista che guarda il mondo dalla traiettoria obliqua della sua solitudine e del suo grido inespresso, chiuso nel petto, troppo orgoglioso anche solo per cominciare a cercare la strada della bocca.
Un ritratto fedele di una regione come Fenland, un distretto del Cambridgeshire chiuso nel cuore della Gran Bretagna eppure perduto in una sua dimensione di confine tra un niente avanti e un altro niente dietro. Un luogo quasi mai raccontato dal cinema inglese, soprattutto nella calura estiva e plumbea di un’iniziazione al mondo adulto così avara di catarsi.
Un’opera prima di un autore di cui speriamo di poter sentire parlare ancora molto presto.
(The Goob); Regia e sceneggiatura: Guy Myhill; fotografia: Simon Tindall; montaggio: Adam Biskupski; musica: Luke Abbott; interpreti: Liam Walpole (The Goob), Sean Harris (Gene Womack), Sienna Guillory (Mum), Oliver Kennedy (Elliott), Marama Corlett (Eva); produzione: Emu Films con il contributo di BBC Films, Creative England, BFI; origine: Regno Unito, 2014; durata: 86’
