3 matrimoni e un BLACK SABBATH

«Se vai a San Francisco assicurati di avere un fiore». Con queste parole Ozzy Osbourne introduceva nel 1970 una nuova idea musicale, inglese e di Birmingham, impostando una netta contrapposizione di genere, ambientale e di ispirazione. Ma è anche vero che una nuova storia sull’industrial, quella cosa poliforme standardizzata dalla musica dei Black Sabbath e sintetizzata dalle parole di Ozzy, che in altri contesti si farebbero raccontare come un abbandono del naturalismo per la scelta di un progetto artistico impostato sui fiumi corrosivi e il ferro raggrinzito e arrugginito dell’anima meccanica dell’uomo, suonerebbe ormai come cicca masticata (Leonard Cohen, The Miracle, 1992), nonostante il fatto che potrebbe essere utile per mostrare come l’icona di uno spettacolo, la sua rappresentazione grafica e - relativamente al teatro - la scena e la disposizione reciproca degli elementi scenografici, sia essenziale alla determinazione di un genere (in tutto e per tutto cioè uno show dei Jefferson Airplane - una band di Frisco - è pari in potenza espressiva a uno show dei Black Sabbath, la band di Ozzy, Birmingham, UK, nonostante i Black Sabbath abbiamo scelto di identificarsi col fumo e la potenza, affatto superficiale alla fine, dell’industria, e i Jefferson Airplane, anche se non è del tutto vero, con la frivolezza solo superficiale dei fiori. Ma anche Eric Clapton è incappato nel medesimo errore di valutazione della potenza della musica di San Francisco, all’epoca dei concerti americani coi Cream, dimenticando che il wall of sound è un’invenzione americana, di un’altra band di Frisco, i Grateful Dead - il tutto configurando assieme quattro magnifici e fondamentali discorsi musicali reciprocamente completamente diversi l’uno dall’altro) - la canzone in questione, il sottobosco che muove la mano di questa partenza, è Somebody To Love, Jefferson Airplane, Surrealistic Pillow, 1967.
In ogni caso ci sono stati tre spettacoli nel programma del Piccolo Teatro di Milano Teatro d’Europa che di fila hanno raccontato la storia di una sposa, dei suoi vestiti, e di come questi cambiano a seconda della direzione presa dalle intenzioni sentimentali. Si era partiti con Marie Guyart (Piccolo Teatro Studio EXPO, Le déraison d’amour, 1-3 ottobre 2020), che lascia tutte le ricchezze di Francia per consacrarsi sposa a Dio, missionaria nelle terre vergini canadesi della scoperta del Nuovo Mondo. E passando sul corpo di Myriam, figlia consacrata kamikaze suicida per il dio islamico ne La Casa di Ramallah (Piccolo Teatro Studio EXPO, dal 2 al 14 novembre 2010: la visione distorta di un amore totalitario che non fa crescere né l’amato, né l’amante), terza è Winnie, sposa di Willie, in Giorni Felici (Happy Days, Piccolo Teatro Strehler, dal 9 al 14 novembre 2010), di Samuel Beckett, unico testo da Beckett dedicato all’amore coniugale e alla vita di coppia, scritto successivamente alle sue prime e uniche nozze.
Ok, allora. Nothing else? Ever! Nothing else ever (Nothing else matters, è un’altra faccenda). «All of old. Nothing else ever. Ever tried. Ever failed. No matter. Try again. Fail again. Fail better». E’ questo, parte della penultima novella di Beckett, con la quale (Worstward Ho, 1983) riesce a fare le glosse all’ultima pagina, all’ultima riga, dei Finnegans di Joyce (in via definitiva: dai gramlò, a Swift, a Carroll, allo scat singing, ai futuristi, la summa della letteratura alternativa da intendersi come alternative music). Ma c’è comunque da dire che Samuel Beckett già con lo stesso Happy Days riuscì ad accostare in maniera formidabilmente precisa l’immobilismo buio e vellutato dei Dubliners (con cui lo stesso Joyce confrontava lui stesso e l’Irlanda forse un po’ troppo col dinamismo senza grip del vicolo cieco continentale suo contemporaneo), trasfigurandolo però nella felice impotenza comune contemporanea e borghese nei confronti di una vita scritta altrove e costantemente sovrastante l’umano scorrere delle cose nel mondo.
In questi tre casi, in questi tre matrimoni programmati a teatro, i colori delle tre spose sono il bianco del vuoto della rinuncia alle ricchezze mondane per consacrarsi sposa di un dio di bontà, e missionaria di pace in maniera in qualche modo costruttiva per le persone; il bianco del vuoto della povertà, del rancore e dell’amore suicida inutilmente distruttivo del sé, del proprio corpo e delle persone attorno, di chi, come nella recita La Casa di Ramallah (per molti versi in alcune sue parti simile nella disposizione geometrica a Happy Days, considerando che molte volte padre e madre si parlano senza nemmeno guardarsi come Winnie e Willie), vuole farsi saltare per aria consacrandosi sposa del proprio dio (Myriam, la giovane figlia di due palestinesi, il padre interpretato da Giorgio Albertazzi, compie un viaggio a Ramallah per fare un attentato kamikaze, vestita normalmente e poi di solo bianco nell’atto finale); e il bianco dell’immobile joyceano, diventato col tempo della letteratura novecentesca il più vivace accostamento alla purezza del matrimonio, in cui la colomba porta un messaggio di pace nel cuore dello sposo (Joyce ha passato la vita a scappare dai rumori della parola guerra).
C’è anche da dire che per presentarsi allo Strehler con un allestimento di Happy Days di Beckett, bisogna essere dei giocherelloni, o alla peggio degli sconsiderati, supponenti e audaci manovratori culturali - o dei geni - perché Happy Days è uno dei più celebri allestimenti teatrali di Giorgio Strehler, che diresse il Piccolo dalla sua costruzione. E’ chiaro che nel caso di Robert Wilson si è tutte le cose assieme e qualcosa di più ancora.
Happy Days è una trasparente lezione di grafica concettuale che sia nel caso di Strehler che in quello di Wilson riesce a materializzare per gli occhi dello spettatore un’impasse estetico (per altro Wilson lascia rispettosamente quasi intatta la regia e la scena studiata da Strehler). Una lezione di grafica concettuale nella progettazione di una nuova estetica coniugale, del rapporto di coppia; e una veloce, brillante e divertente lezione sul come fare a essere felici, come si dice di solito, nonostante il matrimonio, nonostante la pochezza della vita dei contraenti (Winnie e Willie).
Ma più in generale Happy Days è una storia che cerca di mostrare come la nostra condizione, in quanto uomini moderni, sovrastati dall’idea di essere moderni e di conseguenza per forza di cose migliori del nostro passato, è probabilmente il risultato dell’involontaria forzatura dell’inevitabile monotonia e di quella nota leggerezza dell’essere che sentiamo di dover sopraffare per forza, indotti appunto dall’idea che la modernità e il contemporaneo, con l’allegato di tutte quelle invenzioni di tecnica e scienza, e letterature e arti, debbano per forza di cose farci tutti uomini migliori.
Se poi formalmente Beckett raggiunge con Happy Days la descrizione di un andamento esistenziale tipicamente joyceano, materializzando gli ostacoli al dinamismo vitale di cui parlava Joyce, e visualizzando il completo smantellamento del corpo e delle sue azioni nello spazio e nel tempo (Beckett realizzerà il sogno joyceano multimediale delle arti, dando corpo alle parole, voce e colore, anche con filmati e audio rappresentazioni che sono schizzi di videoarte); è altrettanto vero che oltre lo stesso Joyce con Happy Days Beckett raggiunge un ideale estetico tipicamente kantiano nel dichiarare che oltre la percezione dell’estetica dello sguardo, al di là delle condizioni di vita di ognuno, c’è una bellezza che conduce altrove ed è la bellezza dell’amore (Winnie e Willie si amano, qualunque sia la loro vita, e soprattutto non fanno del male a nessuno), e probabilmente un’ideale tipicamente cristiano nell’accettare la bellezza di ogni giorno per quello che è, dichiarandosi felici del nuovo giorno, a prescindere da quello che si è e da quello che succede, ringraziando ogni nuovo giorno per donarci la vita per esistere.
Ne Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, tra i tanti esempi anche precedenti, comunque posteriore a Godot, è rappresentato, in maniera più tranquilla e serena, senza la feroce satira di Beckett o la grevità di Joyce dei Dubliners, lo stesso luogo immobile dell’incomunicabile rassegnato all’impronunciabile amore di coppia e al solo piacere dello stare insieme, e nella stessa accezione in cui ci si consegna all’amore silenzioso ed esclusivo di Dio.
A onor’ del vero, però, un’evoluzione verso il bello kantiano (le cose belle che portano alle belle cose e alla rassegnata felicità sublime e celeste), inaspettatamente parafrasato da Bruce Springsteen nel 1984 (No Surrender, ultima strofa: «I want to sleep beneath peacefull skies in my lover’s bed, with a wide open country in my eyes and those romantic dreams in my head»), c’è anche nel significato, nei testi e nelle vesti delle canzoni dei Black Sabbath e di Ozzy Osbourne da cui siamo partiti.
In queste si può leggere il passaggio dalla diceria che il suo amore (dell’ìo narrante del testo della canzone) non può essere vero (Nativity In Black, febbraio 1970), al fatto che lui stesso (Ozzy) si è accorto di essere paranoico quando la moglie, nella fiction canzonettistica, lo lasciò perché non in grado di essergli d’aiuto nella comprensione e nello sviluppo della propria vita (Paranoid, settembre 1970).
In Happy Days invece il problema è doppio. Né Willie può essere d’aiuto a Winnie, e né Winnie può essere d’aiuto a Willie. Lei è sepolta da una marea di roba che le arriverà al collo, e agita una pistola in segno di suicidio, continuando a dire che questi sono giorni felici. Lui è ridotto a strisciare come un verme alla base della piramide di cosucce che seppelliscono la sua lei. Lei parla di tutte quelle cosette che sono normali dette tra moglie e marito, ma raramente in quel modo, e che lui finge di ascoltare rispondendo a monosillabi tra una pagina e l’altra di un giornale. Willie guarda foto di donne. Winnie parla con uno spazzolino da denti.
La Monroe, diretta da Billy Wilder in A Qualcuno Piace Caldo, spiega e Tony Curtis nella parte di Josephine (in una delle prime celebri parti da travestito nella storia del cinema, lui come Jack Lemmon nei panni di Daphne nello stesso film) che al termine di una storia d’amore, quando si prestano i soldi agli uomini, questi o li giocano alle corse o li spendono per altre donne, e tutto quello che rimane è «un paio di calzini vecchi e un tubetto di dentifricio tutto strizzato».
A questo punto si potrebbe concludere che la feroce satira di Beckett (l’unico elemento irlandese assente o malcelato o mai compreso fino in fondo nell’opera di Joyce, irlandese con Samuel Beckett) si fionda sul circolo paranoico della normalità immobile di James Joyce e introduce nuovi discorsi nella storia della commedia soft contemporanea. Ma proprio considerando i doppi densi linguistici (Joyce, Beckett, Wilder), probabilmente si deve risalire ai fratelli Marx, per avere un quadro più completo - e poi Happy Days è posteriore al film di Wilder e al testo utilizzato da Wilder per il celebre film. Godot è ancora una volta antecedente, però.
In realtà, a trovare l’antecedente, o un antecedente solo, in questo caso si deve passare da Paul Verlaine e da una sua poesia (con Beckett si può assistere alla trasformazione del romantico nell’assurdo, prendendo alla lettera le parole dei poeti riviste per copioni di scena, o alla pazzia, se si immagina un tale che su di un palco parla con la luna). Il titolo Happy Days è stato infatti pensato e poi tradotto in francese come Oh Les Beaux Jours, da una poesia di Verlaine, Colloquio Sentimentale. Robert Wilson, nell’opera inscenata al Piccolo, ha avuto il merito di restituire a un allestimento scenografico di Giorgio Strehler la lingua originale francese, alcuni effetti sonori e un delicato tocco di luce al neon.
Oltrepassando Joyce (Beckett ricorse alla psicoanalisi di Bion per rielaborare fino in fondo il suo rapporto con Joyce), in un salto concettuale che porta dall’uomo comune del ventesimo secolo ai suoi protagonisti assoluti, seguendo una banale coincidenza di eventi, si può affermare che Happy Days può anche essere una caricatura del jet-set, dei suoi modi di consumare le persone, o di come molte persone sono disposte a farsi consumare avvolte da un manto di un quarto tipo di amore, chiudendo il discorso impostato, rappresentato da quello per la gloria e il successo - oh, happy day; e non è nemmeno da escludere che ci sia un paradossale ed estremo riferimento sarcastico alla morte, se, qui come in tutte le opere di Beckett, ogni giorno è uguale a sé stesso, e il giorno felice dei salmi è quello del conseguimento del Regno dei Cieli. O un velato accenno alla petite mort dalla parte opposta del piacere.
Avvolto in un cono di luce al neon, Tom Waits, 1978, Blue Valentine, sesta traccia, canta di gente che dice di non aver mai detto la verità, per cui non può mai dire una bugia. E questo è il Teatro. Come tutta la musica di Tom Waits è Teatro o una sua definizione possibile. O il teatro contemporaneo, una sua parte discreta, un’allitterazione della musica di Tom Waits. Ma in tutti i casi, se quello è il Teatro, questa è una sua lettura, molto più banale, una delle tante, non la migliore, e che nemmeno la notte ha più voglia di ascoltare.
