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Addii: Enzo Jannacci

Pubblicato il 1 aprile 2013 da Edoardo Zaccagnini


Addii: Enzo Jannacci

L’ultima volta l’avevamo visto nel film di Sergio Castellitto, La bellezza del somaro, nemmeno troppo tempo fa. Era il 2010, lui era bello come sempre: capelli argento lucido e pelle arrossata ma distesa. Portava ancora addosso quel bel viso regolare e armonico, dolce, mite e inafferrabile. Il suo. Era elegante nei panni di un certo Armando (nome del titolo di una sua canzone del ’64). Era fidanzato con una diciassettenne figlia di borghesi in confusione. Era saggio, capace col suo sguardo morbido, come proveniente da un altro pianeta, di illuminare i mille piccoli mali di quel pezzo piuttosto simbolico di nostra società. Bel personaggio, Armando, che rompeva gli equilibri (precarissimi) di un film interessante anche se non riuscito in pieno. Ma i ricordi del grande Enzo al cinema sono tanti e si perdono negli anni. A giocare ai primi titoli che vengono in mente, ecco per forza L’udienza di Marco Ferreri (autore prezioso), milanese come lui. Il film è del 1971, e per la prima e unica volta in un lungometraggio, il grande e timido uomo di spettacolo veste i panni del protagonista. Jannacci interpreta un uomo mite e comune di nome Amedeo: un ufficiale in congedo che scende dal Nord a Roma per incontrare il Papa. Non ci riuscirà pur ostinandosi, fino a trovare la morte in Piazza San Pietro. L’udienza è un film importante, aperto a diverse letture pur essendo soprattutto un’opera sul potere e sulla distanza e le barriere che questo crea con le persone. Il viso silenzioso, stralunato eppure composto di Enzo si contrappone ad un enorme colosso arrogante: la richiesta di ascolto di un singolo e il suo bisogno di fede vengono calpestati ed uccisi con l’indifferenza. Se il film di Ferreri è ben impiantato dentro gli anni ’70, e contribuisce alla costruzione della loro biografia, Jannacci e l’Italia hanno cominciato ad incontrarsi e ad incrociare il loro passo già nel decennio precedente, quello del boom, e si sono raccontati a vicenda, con piacere e grande libertà. Pur facendo tante altre cose, soprattutto canzoni, Jannacci fa capolino di tanto in tanto in quel miglior cinema popolare che ha raccontato l’Italia dal miracolo economico alle sue conseguenze. A volte c’è entrato con il volto, altre volte solo con la voce, altre ancora con le idee o le delicate e inimitabili note. Eccolo in La vita agra di Carlo Lizzani, del ’63, tratto dal romanzo omonimo di Luciano Bianciardi (che del fantastico cantautore milanese era amico). In quel film sulla disillusione dopo l’euforia del boom, Jannacci canta una canzone, L’ombrello di mio fratello, accanto al protagonista Ugo Tognazzi, dentro una trattoria popolare di Milano. Sono malinconici, inclassificabili e originali sia il testo che la melodia, e c’è quella miscela di parole e musica che ha fatto grande Enzo Jannacci, nella sua apparente e stralunata leggerezza. Un altro titolo che viene in mente, continuando a parlare di Jannacci e dell’Italia, è Romanzo popolare di Mario Monicelli, del ’74, dove il musicista medico non recita. Eppure quel film si apre con una delle sue canzoni più belle: Vincenzina e la fabbrica, dove Vincenzina è una giovanissima Ornella Muti e l’uomo che la sposa è di nuovo Ugo Tognazzi: un operaio immigrato dal Sud Italia molti anni prima, che quando scopre adultera la bella mogliettina, torna ad essere quell’uomo meridionale che si vantava di aver sepolto per sempre. Lo sfondo del film è ancora Milano, la solita Milano di Jannacci, e Romanzo popolare è uno splendido affresco sulla fabbrica e su chi ci ha lavorato per una vita. A proposito di canzoni di Jannacci dentro i film, come non ricordare quell’altra memorabile che apre Pasqualino settebellezze di Lina Wertmuller? Il film è del ’75 e la canzone è Quelli che, che scorre sui titoli di testa mentre Hitler e Mussolini si salutano, le bombe esplodono e le case crollano. Pezzo geniale, da brividi per musica e parole. O year, viene da dire.. Con la Wertmuller, Jannacci lavorerà di nuovo nell’83, questa volta come attore. Il film è Scherzo del destino in agguato dietro l’angolo come un brigante da strada, e parla di Italia e di politica italiana. Il mitico cabarettista surreale veste i panni di un terrorista e Indovinate quale attore italiano c’è nel film al suo fianco? Ancora Ugo Tognazzi, oltre a Gastone Moschin. Tornando a Romanzo popolare, al di là della canzone che apre il film, Jannacci collabora con Monicelli anche per i dialoghi, insieme a un altro storico importante meneghino, il giornalista Beppe Viola: un altro grande, un altro caro amico del chirurgo e cantautore. La strana coppia Jannacci Monicelli, in realtà, aveva già colpito quattro anni prima, nel 1970, quando Enzo aveva affiancato Monica Vitti nell’episodio Il frigorifero, all’interno del film ad episodi Le coppie, frammento prezioso di quel cinema popolare che ci ha detto bene chi eravamo: due emigrati sardi a Torino vivono il sogno del frigorifero in casa trattandolo quasi come un figlio. Solo che l’hanno comprato a rate, e non avendo i soldi per pagare l’ultima, decidono di rimediare il denaro con una marchetta della donna. Se rinunciare a questa estrema via d’uscita debba significare perdere l’amato elettrodomestico, tanto vale chiudere un occhio per pensare, in futuro, anche ad una bella lavatrice. In quel personaggio, in fondo, in quel disgraziato di origine sarda che vendeva catagnaccio nel capoluogo piemontese, c’erano tutti i poveracci e gli emarginati protagonisti di tante canzoni del dottore poeta. Forse proprio per questo Monicelli scelse Jannacci per il ruolo, e non solo per questo continuò a stimarlo per sempre. Tutti i titoli citati, ai quali aggiungiamo anche L’Italia s’è rotta di Steno, del ’76 (altro film sulla fabbrica e sull’immigrazione interna per il quale Jannacci scrisse le musiche) inseriscono l’artista lombardo dentro un cinema italiano che ha parlato di boom, di consumi, di cambiamento, di immigrazione e di politica. Jannacci, insomma, c’è stato al di là delle bellissime canzoni. Ha parlato anche in altri modi di quel paese che intanto cresceva, o comunque andava avanti, ascoltando le sue strofe disarmoniche e penetranti. E il cinema italiano, da bravo strumento di Storia del costume, non ha mancato di registrare il passaggio del grande Enzo nella vita e nell’Italia. Ecco che torna allora l’importanza dei musicarelli, ecco Quando dico che ti amo, del ’67, diretto da Giorgio Bianchi. Perché qui Jannacci fa se stesso cantando un’altra delle sue canzoni più famose: El purtava i scarp del tennis. Non c’è dubbio che la grandezza semplice di Jannacci abbia incrociato le più grandi forme di spettacolo del ’900, e non stupisce che il cinema se lo sia "ciappato" a ogni occasione, senza pensarci su due volte, sfruttando volentieri la sua maschera sospesa e calma. Ci sarebbero altri titoli da ricordare, ci fermiamo a Il mondo nuovo di Ettore Scola, del 1982, con Jannacci nei panni di un pagliaccio, perché quel che conta davvero, oggi che Jannacci se ne è andato, è che il cinema contribuirà a renderci vivo il nostro genio multiforme. Ci darà la possibilità di andarci a prendere il nostro Jannacci ogni volta che ne avremo nostalgia e voglia. Ogni volta che di questo grande e tenero artista sentiremo la mancanza. Tutte le volte che avremo voglia di raccontare a qualcuno quanto era eccezionale.


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