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Adolescenti che attraversano la strada: Elephant

Pubblicato il 19 novembre 2003 da Fabrizio Croce


Adolescenti che attraversano la strada: Elephant

Andare a vedere un film che racconta gli adolescenti non sarà più la stessa cosa dopo Elephant. Questo è la prima riflessione lucida che suscita il film di Gus Van Sant, una volta terminata la sua vibrante, sconvolgente visione, e dopo aver superato e metabolizzato l’emozione davanti a quelle immagini capaci di trasfigurare la tenerezza, la pietà, la desolazione e l’orrore in overdose di cinema puro, che entra direttamente “in vena”, attraverso le pupille, e va presto in circolo, lasciando atterriti, sconcertati, inquieti. Perché si tratta di una “droga” che non dà assuefazione o perdita di lucidità, tutt’altro: libera la visione dall’asservimento ad un’estetica para-televisiva o dominata da un immaginario spettacolare, fracassone e anestetizzante, e ci restituisce il ruolo di esseri pensanti o, meglio, dotati di una coscienza critica, morale, etica legata direttamente ai due sensi portanti su cui si fonda la nostra conoscenza fenomenologica del mondo, la vista e l’udito. Il famigerato massacro degli studenti alla “Columbine High School”, cui il film fa riferimento, si prestava, inevitabilmente, a qualsiasi tipo di interpretazione, dalla sociologia all’antropologia, dalla psicanalisi alle riflessioni su una società, quella americana, malata di impotenza e frustrazione. Invece Van Sant evita di trattare questo materiale tanto scomodo da un punto di vista così comodo - la ricerca di una spiegazione sull’operato dei due giovani assassini - e attraverso la mdp fa qualcosa che spesso il cinema si dimentica di fare: trasformare il materiale in materia, in corpi, in spazi, in ambienti e fare di loro la linfa vitale, la forza propulsiva di cui si nutre l’immagine. I lunghi, infiniti corridoi su cui rimbombano i passi di ragazzi e ragazze che in prima istanza non fanno altro che esistere con tutto il loro carico di desideri inespressi, le loro chiacchiere cadute nel vuoto, la precarietà e il tenero sbandamento che accompagna la loro andatura incerta. Magari c’è anche chi, come Micelle, la ragazza bruttina che lavora in biblioteca e che corre continuamente per non arrivare in ritardo, sta inseguendo qualcosa che possa assomigliare ad una sorta di pace, di tranquillità, di felicità interiore apparentemente negata all’età inquieta dell’adolescenza. Magari quel Beethoven strimpellato sui tasti di un pianoforte e quell’attimo d’ingenua sessualità vissuto sotto la doccia, avrebbe potuto fermare i due killer sull’orlo dell’abisso. Ma in Elephant tutte le possibili ipotesi su come poteva andare vengono cancellate dalla potenza del linguaggio filmico di Van Sant, che mostra come le cose sono andate, come i corpi, in primis proprio quello di Michelle, sono stati abbattuti, tutto senza indulgenza o compiacimento, ma in maniera fluida, consequenziale, intimamente necessaria. Il livello di angoscia che cresce gradualmente, come una minaccia costante, immagine dopo immagine, prepara lo sguardo a ciò che deve accadere e realizza una compattezza, seppur attraversata da dissonanze e fratture, rara per rigore e intensità. La sostanza diventa forma, il come spiega il perché, il corpo abbattuto di Michelle, nella sua tragicità, è l’unica conclusione possibile, senza nessun appiglio, nessuna giustificazione. Ma forse, andando a scavare in fondo, c’è un altro livello che inquieta e spiazza sotto la limpidezza formale delle immagini: la vibrante, commovente, sotterranea passione con cui Van Sant filma e insegue i suoi giovani protagonisti, assassini compresi, sospendendo qualsiasi giudizio, accogliendoli nel suo sguardo - ogni personaggio ha il suo piano sequenza - e lasciandoli rivelare con naturalezza come esseri fragili e indifesi davanti all’ineluttabilità degli eventi riflessa nel cielo minaccioso pieno di nuvole che apre e chiude il film. E quello che potrebbe sembrare un artificioso espediente narrativo, ovvero il raccontare l’evolversi dei fatti da diversi punti di vista con andirivieni temporali fino al climax finale, è in realtà il tentativo di Van Sant di bloccare in ogni fotogramma, come le foto che scatta uno dei personaggi, queste giovani vite, prima che i colpi di un mitra comprato via internet li uccidano e la società li mummifichi in fenomeni da salotto televisivo. Ciò è ottenuto filtrando due aspetti della vicenda attraverso il filtro della soggettività: il tempo e la percezione sonora. Il primo è dilatato, sincopato, disarticolato in mille frammenti di azioni e gesti, come una sorta di rapsodico poema visivo dedicato a inconsapevoli destinatari; il secondo aspetto, manipolato e distorto come un commento emozionale ai pensieri sordi dei personaggi, consente a Van Sant di scoprire apertamente, per un attimo, il suo affetto verso quei ragazzi: Michelle sta correndo sul campo da football e a un certo punto si ferma ad ascoltare una musica proveniente da un luogo imprecisato. Alza lo sguardo verso il cielo e sorride, poi ricomincia a correre. Un momento di struggente dolcezza prima che tutto venga inghiottito da quel cielo minaccioso.

[novembre 2003]


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