L’ora più buia - Perché no
Fra le nomination agli Oscar, nelle categorie più importanti, colpisce la sempre maggior presenza di autori/sceneggiatori/attori che non sono americani. Nel 2018 fra i registi Guillermo Del Toro e Christopher Nolan, fra i film di nuovo quello di Del Toro e di Nolan, cui vanno ad aggiungersi quello di Luca Guadagnino (Chiamami con il tuo nome, in realtà Call me by your name), e poi il film di Joe Wright, Darkest Hour, ossia L’ora più buia, il film su Churchill; se poi si tiene conto che Phantom Thread (Il filo nascosto) è pure quello un film di ambientazione britannica e la regia e la sceneggiatura di Tre manifesti a Ebbing, Missouri è opera di un regista e drammaturgo anglo-irlandese, la sensazione – non nuova ma vieppiù dominante – è che, complice forse il Brexit, mai come adesso soprattutto l’asse GB-USA è davvero divenuto potentissimo. All’interno di questo trend ciò che, lentamente, comincia a disturbare è la presenza sempre più massiccia di quelli che negli anni ’90 Andrew Higson battezzò “Heritage Film”, (Re-Presenting the National Past. Nostalgia und Pastiche in the Heritage Film), autentico bene rifugio di chi sul presente ha poco ma veramente poco da dire. Né si deve di continuo credere a criptici e forzosi ammiccamenti alla contemporaneità. E dunque: The King’s Speech, The Imitation Game e adesso Darkest Hour. Film diversissimi, per carità, ma tutti riconducibili a un modello in fondo ricorrente: recitazione perfetta, dal/la protagonista (sempre bravissssssimo/a!) ai comprimari, costumi impeccabili, traboccanti di giacche di tweed e tailleur perfettamente à la mode, scenografie senza un divano sbagliato, senza una tenda sbagliata, beige marroncini gli interni e verdi verdi gli esterni, fotografia meravigliosamente anticata – tutto funzionale a celebrare lo splendore britannico, salvatore dell’Europa, del Mondo, di tutto. L’ultimo esemplare di questo “genere” o forse di questa “maniera” è L’ora più buia, il film su Winston Churchill appunto, che risponde in tutto e per tutto al genere docufiction in salsa Heritage, si potrebbe dire History Channel con qualche carrellata in più (Churchill in macchina ben due volte) e qualche plongée in più; o più semplicemente con più soldi per ricostruire tutto ma davvero tutto. Forse è il caso di dirlo ad alta voce, ma questi film sono in larghissima parte clamorosamente noiosi; piacciono magari ai ragazzini che non conoscono i fatti, ma chi minimamente è al corrente della Storia si annoia da morire. Altra cosa evidentemente è Dunkirk, anzi proprio il confronto con il film di Nolan fa capire che per rinegoziare cinematograficamente la Storia bisogna avere delle idee forti, se possibile: cinematografiche. Per paradossale e orripilante simmetria ( i primi giorni/gli ultimi giorni della guerra), per la location (sottosuolo/bunker) per la perfezione del re-enactement da parte del protagonista, persino per la segretaria, infine per una certa claustrofobica teatralità L’ora più buia ricorda da vicino La caduta il film di Oliver Hirschbiegel (2004) su Hitler, con Bruno Ganz protagonista. E infatti il cinema tedesco ha preso a prestito dal cinema anglofono lo “Heritage Film”, con ben altre “icone” evidentemente, con ben altro scopo (ne parla Lutz Koepnick in un saggio del 2002: Reframing the Past, Heritage Cinema and Holocaust in the 1990s), ma in fondo con la stessa standardizzazione manierista del passato. Avanziamo l’ipotesi (il sospetto) che i membri dell’Accademia – giustamente e saggiamente - premieranno Gary Oldman (che negli anni ha vinto ben poco, peraltro), ma quel premio sarà l’unico per questo film lungo e ripetitivo.
Leggi il perché sì
(Darkest Hour); Regia: Joe Wright; sceneggiatura: Anthony McCarten; fotografia: Bruno Delbonnel; montaggio: Valerio Bonelli; musica: Dario Marianelli; interpreti: Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James, Stephen Dillane, Ronald Pickup, Ben Mendelsohn; produzione: Working Title Films; distribuzione: Universal Pictures; origine: Regno Unito, 2017; durata: 125