Blade runner 2049 - Perché no
Mentre scrivevo questo pezzo la prima volta, ho visto all’improvviso le parole sciogliersi e cadere in fondo allo schermo, cedendo il posto ai codici sottostanti. C’era qualcosa di struggente nel vedere quel linguaggio, comprensibile solo a sguardo umano, perdersi nell’ignoto digitale. Non posso più scrivere quello che avevo scritto, e magari questo è un bene. Tuttavia ho pensato che questo imprevisto, così casualmente pertinente, potesse aiutarmi a scrivere un secondo pezzo sull’esperienza della visione di Blade runner 2049, film che si concentra ancora più esplicitamente, e tuttavia banalmente, rispetto al suo iconico genitore, sulla traccia che resta incisa in ciò che ha avuto nascita umana, qualsiasi cosa questo significhi.
Il film realizzato da Denis Villeneuve non si allontana di molto dalla poetica del mistero dei legami famigliari inseguita dal regista sin dai tempi de La donna che canta, imbastita nel sontuoso affresco dell’illusione temporale di Arrival. Tale poetica - magistralmente incarnata da un altro regista contemporaneo, il giapponese Hirokazu Kore’eda, in particolare nel film Father and Son - non può non attingere a piene mani al patrimonio culturale e estetico della tragedia greca, focalizzandosi in particolare su due livelli: quello degli insondabili labirinti in cui si perde e ritrova la memoria del sangue e quello dell’enigma dell’affinità elettiva che può sovrapporsi, confondersi e fissarsi in indistinguibile replica, copia conforme, Kiarostami docet, del legame parentale.
Anche il Blade runner del 1982 parlava, tra le altre cose, di questo. Tuttavia, la rappresentazione avveniva attraverso un discorso ontologicamente cinematografico, basato sul montaggio interiore dei sentimenti e del suo traslato iconografico, dunque politico. Tra la figura di Rachel e quella di Roy, tra la caccia amorosa e quella tragica, il discorso scivolava in modo impercettibile, ma in maniera inequivocabile, dalla dimensione intima, personale a quella collettiva, sociale. Non c’è distanza tra lo scenario apocalittico evocato dal monologo finale di Rutger Hauer e la sensuale inconsapevolezza del confine tra umano e disumano impressa, come "il crollo di una diga", sul volto senza tempo di Sean Young, di cui Deckart s’innamora. Immagine e parola trovano l’accordo perfetto.
In Blade runner 2049 invece l’indagine di edipica memoria, deprivata della carica ipnotica del meccanismo di mise en abîme del mito originario, e con esiti più prossimi a un pinocchio binario (con tanto di resti decadenti di un vecchio albergo di Las Vegas, di imprevista quanto inquietante attualità, come cimiteriale paese dei balocchi), vede il protagonista Ryan Gosling muoversi - a ragione, per certi versi - con il piglio del protagonista catatonico di un videogame.
La sua ricerca, che si fa man mano ricerca corale, di tutti i personaggi del film, si svolge lungo un percorso piano, minimale, prevedibile e, comunque si legga il finale, consolatorio.
Il Deckart di Gosling è il protagonista di Drive, senza il motore esplosivo della rabbia compressa e il bomber con scorpione dorato dell’anonimo pilota (K. indossa invece un giaccone da aviatore, che con il suo tocco retrò sfida invano le cravattine sottili e le camicie in stile country Rothko dell’Harrison Ford dell’82). Ma le differenze con il piccolo cult di Refn, di indubbia natura cinematografica, finiscono lì.
Nella regia di Villeneuve, tutto appare volutamente spento, dimesso, depotenziato, in una prospettiva procrastinatrice dell’evento seriale. Sembra quasi che si cerchi di spostare l’abitudinarietà dello spettatore televisivo verso il mezzo cinema, alzando il tiro rispetto alle saghe dei supereroi, usando una delle opere più amate, eppure controverse dal punto di vista della storia della critica cinematografica. Bisognerà aspettare le prossime mosse di Villeneuve, ma soprattutto di chi ha voluto immaginare questo processo e realizzarlo. Ceci, comunque, n’est pas du cinéma!
Da quando Blade runner uscì nelle sale, nel 1982, il futuro non è stato più lo stesso. Grattacieli e bassifondi, luci innaturali in una notte perpetua, mescolanza di dimensioni, colori, forme umane alterate, sfigurate e ricomposte nei sarcofaghi dei canoni omologanti di una società post capitalista, che lascia intravedere, attraverso l’uniformazione metropolitana, vaghi, eccentrici frammenti di memoria di un’origine diversa, unica, irripetibile, seppur non più tracciabile.
Su questa terra, miseria e balordaggine, marginalità e rivolta allevata, egoismo e forme perverse, eppure autentiche, di solidarietà appaiono come vampe improvvise e vive, incendi irriducibili, in un mondo dove le regole si dettano con la sopraffazione e la repressione.
Un essere non umano, semidio, quasi invincibile replicante, può portare in giro innesti di memoria, frammenti di una vita passata non suoi, quasi indisturbato. Se non ci fosse un uomo, forse, fatto di carne ed ossa, ma con un distintivo e una pistola, come dio, il noir, comanda: un blade runner.
Se l’identità umana del protagonista è il punto di partenza del film, l’umanità di Deckart, in opposizione all’aridità e all’accecamento del mondo in cui vive, si nutre di frammenti che gli vengono - volente o nolente - proprio dai non umani che incontra: da Rachel, da Roy. Persino dalla tenera, clownesca, crudele, sexy, punk Daryl Hannah/Pris, che la rendono uno dei personaggi più vitali e indimenticabili del film. Già, i personaggi femminili. In Blade runner, queste figure, tutte replicanti a farci caso, con la loro fragilità, naturale originalità (apparente contraddizione in termini per un replicante), autonomia, desiderio di libertà di essere ciò che si è, sono tra le cose destinate a rimanere immortali - per quel che questo possa significare al cinema - impresse cioè indelebilmente, entità autonome rispetto al protagonista Harrison Ford, nella mente dello spettatore.
In totale opposizione, Blade runner 2049, nonostante la pletora di personaggi femminili, è un film profondamente maschile, e non solo per la timida scena di sesso a tre (un po’ ridicolmente Ghost, un po’ goffamente Her).
Non esiste, tra i non pochi esseri femminili che popolano l’avventuroso universo in cui si muove la giovane marmotta K., l’idea di una donna, quand’anche replicante - non il suo carattere specifico, ben inteso - che possa vivere di vita propria, o che possa almeno non risultare solo il timido abbozzo di un personaggio esordiente nella prima puntata di una ben lunga serie. Se la Madame di Robin Wright è solo l’ombra televisiva del suo mitologico ruolo in The Congress, la compagna virtuale di K., Joy, coerentemente rinchiusa nel suo mandato professionale di dedizione totale al proprio uomo, ma con un prevedibile futuro davanti a sé di ritorno e ribellione al suo ruolo di donna-elettrodomestico, non può non tradire, nella perfezione stereotipata da deliziosa bambola gonfiabile, almeno un accenno delle verità nascoste (per chi negli occhi abbia l’Adriana di Io la conoscevo bene, con la quale, purtroppo, la figurina della mogliettina perfetta frutto dell’immaginario di K. condivide molto più, almeno per il momento, di un sexi tubino).
Per non parlare dell’indomito, sensuale temperamento dell’attrice e regista palestinese Hiam Abbass, qui relegata in un ruolo da capo rivolta poco convinta e rapidamente dimenticata da Gosling come dal pubblico che gli sta dietro. O del santino narrativo della produttrice di ricordi Ana Stelline, al cui confronto Steven Universe sembra il protagonista di un thriller. O, ancora, della super cattivissima Luv, potenziale valida alternativa, altezza a parte, di Gal Gadot in Wonder Woman.
È il marketing, bellezza. Blade runner 2049 non ha semplicemente nulla a che vedere con il cinema del binomio possibile entertainment-forma d’arte del suo predecessore; semplicemente si ferma, neanche troppo brillantemente, alla prima parte del discorso. Nulla a che spartire con il fascino malinconico, la visionarietà cinetica e il movimento visceralmente cinema del Blade runner di Ridley Scott. Ne usa il marchio, si trastulla con un revival posticcio di personaggi e atmosfere “innolaniate” (vedi Interstellar), che emoziona pure poco, facendo pronunciare a Harrison Ford alcune tra le battute peggiori della sua vita (nel finale persino un imbarazzante “Come stai?”).
Indubbiamente, l’unico, vero beneficio di questa operazione è che, tra i milioni di persone in tutto il mondo che andranno al cinema per vederlo, ci sarà, soprattutto tra i più giovani, chi avrà la curiosità di cercare il Blade runner di Ridley Scott e il piacere di scoprire, a pochissimo ormai da quel fatidico 2019 - incarnazione dei nostri sogni e incubi, cinematografici e non, peggiori - quello che ancora oggi ha da dirci.
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