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The Square Perché Sì

Pubblicato il 30 dicembre 2017 da Matteo Galli
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The Square Perché Sì

Non avranno certamente il valore auratico di Leoni, Orsi e Palme d’Oro, non avranno certamente il valore commerciale (e auratico) degli Oscar, ma gli European Film Awards una qualche importanza, vivaddio, ce l’hanno. Quest’anno – la cerimonia si è tenuta a Berlino venti giorni fa - era una partita fra Cannes e Berlino: tre film passati e premiati a maggio alla Croisette (The Square, 120 BPM e Loveless) contro due film passati a febbraio a Berlino, l’ungherese Corpo e anima, vincitore dell’Orso d’Oro, di Ildikó Enyedi, in uscita in Italia all’inizio del nuovo anno, e L’altro volto della speranza di Kaurismäki). Ha vinto The Square sia in generale, sia nella categoria “Miglior Commedia”. E chi scrive – a differenza di chi ha recensito il film per “Close-Up” al momento della sua presentazione a Cannes, concedendogli due misere stelle - apprezza molto la scelta di questo film disturbante e divisivo, come apprezzò la scelta di un film, per certi aspetti, altrettanto disturbante e divisivo, la scelta di Vi presento Toni Erdmann della tedesca Maren Ade, premiato dagli “European Film Awards” l’anno scorso, nella città polacca di Breslavia.
Proviamo a dire sei ragioni perché The Square è un grande film (ed è bello, arrivando tanto tempo dopo, poter dare per scontato l’intreccio). 1) da un’ottica apparentemente snob, intellettuale e privilegiata, trattando cioè argomenti che alla gran parte della popolazione non interessano, The Square riesce in realtà a negoziare conflitti potentissimi: conflitti identitari, conflitti etnici, conflitti di classe, conflitti antropologici, tutti clamorosamente calati nel presente (non sono moltissimi i film che lo fanno). Insomma cerca di problematizzare questioni su cui si gioca il presente e l’avvenire politico dell’Europa, su cui, fra le altre cose, si decidono elezioni, maggioranze. Ogni singola sequenza pone il personaggio principale – una brava persona in fondo, solo un po’ coglioncello e narcisista- dinanzi a un ventaglio di opzioni rispetto alle quali non esiste una scelta giusta e una sbagliata, probabilmente sono tutte sbagliate; ma soprattutto lo spettatore è portato a interrogarsi se esistano da qualche parte istanze sovraordinate autorizzate a decidere che cosa è giusto e che cosa è sbagliato, che cosa è politicamente scorretto o scorretto; 2) The Square innesta su un realismo di fondo costanti e alla fine rigorosi inserti surreali, producendo una versatilità stilistica piuttosto infrequente nel cinema contemporaneo che, fatte salve le serie e i sequel ascrivibili a fantascienza/fantasy etc, presenta una vieppiù stucchevole egemonia neorealistico-documentaria; 3) anche in grazia di questo aspetto, The Square è un film (anche) divertente che sa mantenere costantemente il precario e instabile equilibrio fra i toni del dramma e quelli della commedia. Si potrebbero citare almeno una decina di sequenze dove lo spettatore non può fare a meno di ridere: il non più giovanissimo collaboratore del museo che arriva con l’infante al meeting in cui si deve decidere la strategia pubblicitaria per la mostra da inaugurare, i due pubblicitari che decidono a morra cinese chi parlerà, gli episodi con lo scimpanzé, la lite sul preservativo, le due sequenze con i donatori del museo (quella iniziale in cui lo chef alza la voce e poi quella con la performance da teatro della crudeltà con protagonista Terry Notary, esperto di/in scimmie), l’intervista all’artista disturbata dallo spettatore affetto da sindrome di Tourette etc etc. Ma tutte le sequenze citate rappresentano costantemente un momento di minaccia, sembra che possano capovolgersi nel loro contrario, la minaccia vera è sempre dietro l’angolo e talvolta si concretizza davvero; 4) The Square è un film molto rigoroso sul piano formale che esemplifica l’assunto di fondo, ossia il contrasto fra ordine e caos, attraverso due figure ricorrenti, il quadrato e la spirale, rappresentate iconicamente, ad esempio, nella continua inquadratura di scale e pianerottoli, con plongée ora geometriche ora labirintiche. Il simbolo di fondo di cui al titolo inglese equivale, in italiano, a due significati diversi, solo in parte coincidenti, anzi fra loro in contraddizione (ciò che poi corrisponde, appunto, alla dialettica fondamentale del film): la piazza e il quadrato. La piazza come luogo di una socialità aperta, fiduciosa e solidale della cultura occidentale; il quadrato come delimitazione almeno apparente e in fondo vana del caos, come spazio, magari anche auratico e sacro (più volte nell’autocaratterizzazione dell’artista lo si definisce un “santuario”) ma alla fine iperstrutturato esclusivo ed escludente; 5) The Square racconta in modo non retorico, non saccente la progressiva virtualizzazione della società e dei rapporti umani, anche qui con inquadrature memorabili, tipo quella in cui il protagonista cerca le figlie nel grande magazzino e tutti sono affacciati sulla balaustra con i loro cellulari in mano e non si curano della sua richiesta di aiuto, la virtualizzazione dei valori, l’ipocrisia del politically correct, esemplata in modo particolare dallo choc (e dal voyeurismo) mediatico-estetico del video caricato su YouTube dal quale si dipanano una serie di questioni di portata colossale a cui, com’è giusto che sia, Ruben Östlund non intende dare una risposta definitiva; 6) last but not least The Square è una – si potrò obiettare: facile - satira sul mondo dell’arte, soprattutto contemporanea e dei suoi farfugliamenti pseudo-critici. In occasione della visita alla Biennale di Venezia discutevamo con amici circa l’assoluta interscambiabilità dei pannelli illustrativi, di quel gergo confuso e vago, del tutto privo di referenzialità. E l’intervista della giornalista americana, all’inizio del film, ne rappresenta un esempio impagabile.


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