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Americana – Temple Grandin. Una donna straordinaria

Pubblicato il 21 agosto 2011 da Marco Di Cesare


Americana – Temple Grandin. Una donna straordinaria

È un pensiero che corre via, allontanandosi e divenendo immagine, illuminando una forma televisiva che si snoda lungo i cento minuti di un bio-pic secondo l’HBO, un tv movie esemplare che racconta di una vita unica: quella di Temple Grandin, una donna affetta dalla sindrome di Asperger, un’americana nata nel 1947 e che, nonostante l’handicap, diventerà una professoressa universitaria, una mente geniale che si specializzerà in zoologia e che rivoluzionerà i metodi seguiti per l’allevamento del bestiame. La sua esperienza, inoltre, diventerà fondamentale per gli studi sull’autismo e si farà conoscere presso un pubblico più vasto quando, nel 1995, verrà divulgata da Oliver Sachs nel libro Un antropologo su Marte.
Il film, attraverso il quale il regista Mick Jackson ha diretto l’intensità di una splendida Claire Danes, viaggia come un assembramento di visioni e di ricordi, seppure incastonati in una certa linearità della narrazione, dolci e spesso inattesi fendenti che solcano il racconto, tanto che questo diviene un sogno immerso dentro una realtà acutamente osservata da occhi estranei, giungendo fin dentro una biografia che è l’analisi di una condizione psicofisica. Una storia americana in cui l’individualità in quanto tale finisce per esaltarsi, dibattendosi tra sogni, successo, ascesa, forza di volontà e anche fortuna (l’aver incontrato dei buoni mentori), ma dove è la sensibilità a innervare il tutto, donandogli vita eterna. Un racconto nel quale il successo è quello contro la malattia (ma, ovviamente, non nel senso di una sconfitta di quest’ultima, trattandosi di un male incurabile), un movimento il cui traguardo ultimo significa oltrepassare i limiti: quelli propri come quelli di tante altre persone normali, quando di fronte a una ragazza sfilerà un ambiente prettamente maschile e spesso maschilista, tra i cowboy di quel West dove si svolge l’azione. Principalmente quella ragazza porterà avanti una visione altra, distante dalle prospettive e dalle regole comuni: un sentire particolare che le permetterà di ascoltare con attenzione i lamenti degli animali, ponendola in contatto con quella diversità che solo i ’diversi’ riescono a intendere, mostrando l’amore nei confronti di chi non sa parlare e non sa farsi comprendere con facilità.
Da una parte, perciò, vi è una linearità classica; dall’altra una frammentaria visionarietà che agisce mediante colpi repentini, ironiche illuminazioni e istantanee della mente che, assieme a quell’impianto generale, rappresentano la messa in forma dell’intera idea che è alla base di questo bio-pic: ossia una diversità calata nella normalità. Soprattutto si vive di una continua sollecitazione sensoriale, in tale modo raffigurando la prodigiosa memoria visuale della Grandin che scatta fotografie con la mente e visualizza i propri pensieri delineandoli per immagini. E attraverso uno stile fatto di un ritmo serrato che tutto trascina con sé, l’attenzione viene mantenuta sempre elevata. Mentre il film risulta essere puntellato di forti ricorrenze, attraversato da continui ritorni a concetti già esposti, a esplicitazioni rese visualmente come se fossero incisioni: per esempio il leitmotiv rappresentato dal valicare porte, un problema che assillerà la donna lungo la sua crescita, ma che non assumerà i contorni di una didascalica sottolineatura, poiché sarà inserito in una narrazione che nelle immagini trova il proprio fulcro, con una pervicace insistenza dove tutto concorre a simboleggiare la continua stimolazione che è parte preponderante della vita della Grandin, coinvolta in un flusso di estrema sensibilità sensoriale. Un’esasperata ricettività che diviene un gioco attraverso il quale scoprire il mondo con i propri occhi, sentendolo fin dentro di sé, accogliendolo assieme ai timori che nasconde, ansie esacerbate dalla sensitività di una persona speciale, spaventata dalla confusione e dal contatto con gli altri (quando questo non è desiderato), intanto che le musiche di Alex Wurman lasciano una evidente e pregevole traccia di sé, ma senza proporre alcun inutile sentimentalismo, rispettando ampiamente la cifra stilistica di questa ennesima splendida opera regalataci dall’HBO.


INTERVISTA ESCLUSIVA A CLAIRE DANES


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