X

Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicit‡ in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di pi˘ o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Chiudendo questo banner, invece, presti il consenso allíuso di tutti i cookie



Anniversari - Que reste-t-il de nos amours? A cinquant’anni da I Quattrocento colpi

Pubblicato il 13 maggio 2009 da Fabiana Proietti


Anniversari - Que reste-t-il de nos amours? A cinquant'anni da I Quattrocento colpi

Je tourne autour de la question qui me tourmente depuis trente ans: le cinéma est-il plus important que la vie?
François Truffaut.

Il 4 maggio 1959 il Festival di Cannes proietta il primo lungometraggio di un giovane e bizzoso critico, inviso a molti per il suo temperamento e i veementi attacchi al cinema e alla critica ufficiali. È difficile stabilire una data precisa cui far risalire il debutto della Nouvelle Vague, e a contendersi il titolo di pellicola ufficiale troviamo tre tra i registi più incredibili di un Novecento che ha da poco superato il giro di boa: Claude Chabrol con I cugini (presentato l’anno prima), Jean Luc Godard con Fino all’ultimo respiro e François Truffaut con I quattrocento colpi, senza contare il "fratello maggiore" Alain Resnais di Hiroshima Mon Amour.
Sono indubbiamente per il Festival della riviera stagioni memorabili, in cui la cinematografia francese lascia irrompere sugli schermi la modernità.
Hanno temperamenti diversi i giovani turchi, passati dalla stylo alla caméra, e in particolare proprio i due esordienti di Cannes 1959, Godard e Truffaut, così diversi e complementari, rappresentano le due metà, il cervello e il cuore di un movimento che indiscutibilmente ha segnato il cinema a lui contemporaneo e quello futuro.
A volte risultando persino un limite per la successiva cinematografia francese, eccessivamente vincolata a questi numi tutelari, tradendo in tal modo gli insegnamenti di chi aveva a suo tempo rinnegato gli idoli preconfezionati consegnati dalla tradizione, andando a cercare altrove i propri “cattivi maestri”, in un cinema di genere poco blasonato e antiborghese.
Cosa si può ancora dire oggi su I quattrocento colpi che non sia stato già raccontato, commentato più e più volte da generazioni di cinefili che su quelle immagini si sono formate?
E cosa ci resta, cinquanta anni dopo, di questo commovente e veemente inno alla libertà anarchica dell’adolescenza? Fortunatamente, resta tutto quello che colpì allora il pubblico della Croisette: la forza e il fascino eterno de I quattrocento colpi stanno proprio nella sua atemporalità, nella vita che pulsa nei frame che incorniciano lo sguardo di sfida di Antoine Doinel e che dopo mezzo secolo trafigge ancora gli spettatori di oggi, che si immaginerebbe più smaliziati e storditi da immagini e racconti di ogni tipo per lasciarsi sorprendere da un cinema che allora appariva rivoluzionario – il famoso sguardo in macchina finale – e che ora diventa un classico.

Sarebbe felice François Truffaut, ribelle mai veramente riconciliato, che le sue opere dopo interi lustri non siano diventate parte di quel cinéma de papa contro cui si era strenuamente battuto negli anni della critica militante prima su Arts e poi sui Cahiers. Sarebbe felice di sapere che quel resoconto romanzato della sua stessa inquietudine giovanile è ancora considerato – anche a venticinque anni dalla sua morte – una pellicola imprescindibile con cui gli autori contemporanei non cessano di confrontarsi.
Criticato rispetto agli altri membri della Nouvelle Vague per una mancanza di rigore e militanza riscontrabili invece nei teoremi di Eric Rohmer e Jacques Rivette, e nelle parabole visionarie di Godard, Truffaut si è dovuto scontrare spesso con l’ “onta” del commerciale, del vendibile, del facile. Eppure la sua personalità e il suo universo poetico erano già tutti espressi nell’opera prima, così felicemente salutata da pubblico e critica: una cinefilia totalizzante cui si sommava un amore per la letteratura che tramutava i libri e i film in dèi pagani della sua personale religiosità. Antoine che accende un cero a Balzac perché lo ispiri nel tema in classe diviene esplicitazione di una totale devozione alla classicità e al gusto della citazione (il maestro lo accusa di copiare, ma è un plagio per ammirazione), mal interpretato successivamente da quei detrattori che non perdonavano a Truffaut un’indipendenza scambiata per disimpegno.

A distanza di anni si può affermare che invece l’attualità del cinema di Truffaut – e de I quattrocento colpi in modo particolare – si fonda proprio sulla mancata aderenza a tesi politiche, ideologiche, riscontrabili invece altrove e che paiono oggi incredibilmente datate, pur suscitando a volte malinconia per un impegno perduto. L’incanto del cinema truffautiano, e della personalità del suo autore, è racchiuso invece in questo stato anarchico, che non è momento passeggero di contestazione nell’età della formazione, ma indole dell’animo, costante e ineluttabile predisposizione caratteriale.
E, infatti, Antoine Doinel conserva quella sua aria di sfida al mondo anche nelle pellicole successive del ciclo – nella radicalità dell’innamoramento in Antoine e Colette tanto quanto nell’irresponsabilità con cui rinnega il “sacro vincolo matrimoniale” in Domicile Conjugal e L’amore fugge – e il suo interprete, l’immenso Jean Pierre Léaud, direttamente “regalato” allo spettatore in un ruolo memorabile, si è mostrato nel tempo allievo devoto, portando avanti una carriera esemplare che non ha mai tradito il suo primo personaggio, con uno stile recitativo così personale e poco assimilabile che finirà con lui.

È forse per questo innato istinto alla rivolta – fisiologico e non meditato, di pancia e non di testa – che lo spirito de I quattrocento colpi e lo slancio passionale di François Truffaut nei confronti del cinema rivivono oggi in cineasti diversi, geograficamente e culturalmente lontani. All’interno della cinematografia francese l’eredità della pellicola è stata raccolta da molti - i bellissimi racconti adolescenziali di Téchiné e Assayas ne sono l’esempio più fulgido - ma a tratti si è spinta fino al documentario (Essere e avere di Philibert).
E ancora oggi, il sovvertimento allegro delle regole che Antoine Doinel si porta dietro nell’arco della sua lunga esistenza cinematografica rivive nelle liaisons amorose che legano i protagonisti de Les Chansons d’amour del giovane Christophe Honoré, commedia musicale in apparenza omaggio ai musical di Jacques Demy, e invece affine alle atmosfere sentimentali dell’autore di Jules et Jim e Baci rubati; ma Honoré, ex redattore dei Cahiers, gli rende omaggio anche nella sua ultima fatica, La belle personne, in cui lascia emergere un analogo amore per la letteratura – la pellicola è una rilettura di La princesse de Clèves di Mme de Lafayette – e la delicatezza con cui Truffaut osservava il mondo giovanile (da I quattrocento colpi a Gli anni in tasca).
Ma le corse per le vie di Parigi del piccolo Doinel non ispirano solo i giovani autori francesi (tra i quali Honoré sembra davvero l’erede ideale); servono al protagonista di Che ora è laggiù? di Tsai Ming Liang per colmare la distanza con la ragazza di cui si è innamorato a vista, rendendo la pellicola del 1959 un ponte in grado di attraversare tempo, spazio, razze e culture in virtù di una capacità emozionale universale.
Ed è per lo stesso motivo che un regista così apparentemente lontano dalla tradizione della Nouvelle Vague – e perciò inviso agli attuali Cahiers – come François Ozon, tra i tanti possibili padri spirituali non ha dubbi nell’indicare Truffaut: gli rende omaggio facendo sua la lezione di “girare sempre contro il film precedente”, spaziando dal giallo al mélo, toccando tutte le corde dell’animo umano, e poi, con una citazione – di nuovo il plagio per ammirazione – riunendo le sue “donne”, le sue dive, a ricordarlo commosse mentre pronunciano una delle sue battute più belle <<amarti è per me una gioia e una sofferenza>>.


Enregistrer au format PDF