Anno vecchio, nuovi Eroi

Uno degli snodi più interessanti del cinema americano dell’anno appena trascorso risiede tutto nel tentativo di ridefinire e ridisegnare la concezione classica dell’eroe (e, per estensione del super eroe).
Di fatto, il trauma epocale del crollo delle Torri Gemelle, la realtà di una Guerra che sempre più si prolunga nel tempo e che sembra ad essere destinata a non avere una fine vera sono elementi che non possono non obbligare l’americano medio (se ce n’è ancora qualcuno...) a ripensare la propria posizione in un mondo che si è fatto, di colpo, ostile e poco comprensibile.
Probabilmente lo shock più grande della nazione non è stato tanto quello di veder crollare le certezze economiche e simboliche del proprio impero, nè quello di non sentirsi più davvero invincibili, né quello ancor più arrogante di volersi come esempio di democrazia e libertà. Il trauma più grande dell’americano cresciuto a fette di torta di mele e tacchini farciti con salsa di mirtilli e castagne è stato piuttosto lo scoprirsi odiati prima ancora che temuti e rifiutati piuttosto che acriticamente e fideisticamente ammirati.
E questo perché l’americano medio , chiuso nella sua borghese e ristretta visione del mondo, non riesce, non può e non vuole vedersi mostruoso. Non accetta l’idea che il suo benessere, intoccabile e inviolabile perché voluto direttamente da quel Dio cui si ci rivolge quando, mano al cuore, si saluta la bandiera, possa significare la sofferenza, la fame e il dolore di molti.
L’americano medio, insomma, di fronte alle immagini di paesi del terzo mondo che bruciano festanti i simboli della sua nazione (per nascita ed elezione) non possono fare a meno di chidersi: "Perché proprio io?".
Come non possono fare a meno di chiedersi, quotidianamente, allo scoppio di ogni nuova autobomba (e dati recentissimi attestano che le vittime americane di attentati in terra iraquena superano ormai i morti dell’11 settembre): "Perché proprio i miei eroi? Perché proprio i simboli incarnati della mia Virtù e dei miei Valori?"
E un dubbio, sia pure larvale, su quelle virtù e quei valori che si vorrebbe esportare colla forza delle armi deve pure aver preso corpo nella coscienza collettiva se il cinema più recente ha sentito il bisogno di cominciare a riflettere in maniera più critica, più sfuggente e problematica su cosa sia giusto considerare eroico e chi sia giusto chiamare eroe.
Già il nuovo Superman di Bryan Singer (uno dei più fini e misconosciuti pensatori del lato oscuro dell’America contemporanea) si muove precisamente e consapevolmente in questa nuova direzione.
L’eroe americano per eccellenza, il simbolo profondo della baldanza e della bontà, della forza e delle certezze degli Stati Uniti subisce, sotto lo sguardo del suo nuovo regista, un’operazione di radicale ridefinizione. Viene ridisegnato in maniera quasi rivoluzionaria.
Il Superman di Singer non è più un personaggio monolito, segno incarnato e cristologico della bontà imbattibile e senza linee d’ombra, ma figura sfumata: un Cristo non immune alle ultime tentazioni e ai patimenti del boschetto dei Getsemani.
La sua storia si sposta dall’hic et nunc del gesto eroico, ad un fluire temporale che si dipana per ben tre generazioni (quindi è uno e trino) e che si rinnova nel tempo in un patto di padri e di figli tra le grida di dolore di un mondo che cerca la Salvezza e ne è, al tempo stesso, atterrito.
Il vero shock del film è la caduta prima della resurrezione, il vedere l’eroe precipitare, in segno di croce, verso una fine imprevedibile.
Soprattutto è lo scorpire vulnerabilità nell’acciaio: sorprendere un piccolo dio su un letto d’ospedale, immune alle cure, pronto alla morte.
Il Super è obbligato a scendere a patti con l’essere uomo. La carne supera in proporzioni la possanza dei muscoli. E le pallottole, prima bloccate dal petto d’acciaio sono ora fermate da occhi aperti, spalancati, senza neanche la protezione di un battito di ciglia. Quegli stessi occhi che cercavano, nello sguardo a raggi X, la donna amata e desiderata.
Il difficile rapporto padri/figli (in un’America che incarna questo complesso edipico anche nella realtà della sua stessa amministrazione passata da Bush padre a Bush figlio) ritorna, semplificato, anche in X-men 3 di Brett Ratner. Ma qui, contrariamente a quello che accade nell’America vera, i padri si sacrificano per amore dei figli (Xavier) o devono essere da questi ignorati, osteggiati, temuti e magari anche eliminati (Angel).
Una visione dolente, forse un po’ annacquata da un regista che sembra aver paura dell’eccessiva carica di "diversità" dei suoi stessi protagonisti, ma che resta sintomo potente della difficoltà di restare fedeli ad una precisa definizione di eroe.
Gli eori della saga di X-men restano tra i più complessi e sfuggenti di tutta la fumettistica americana. Hanno passati travagliati, vivono in una società che li rifiuta e li allontana in ogni modo possibile, sono una dimostrazione per assurdo della mostruosità dell’America sedicente "normale". E, forse, l’eccesso di semplificazione cui sono soggetti i personaggi rispetto ai primi due episodi (non a caso firmati da Singer) si può spiegare non solo con il cambio del regista, ma anche e soprattutto con quel clima di incertezza nella quale l’America tutta vive e respira e che spinge i registi mesterianti (Rattner è tra questi) più verso l’intrattenimento che non verso la rilfessione.
Ciò nonostante la visione catartica della impressionante Fenice Nera, l’Eroe apporodato definitivamente alla realtà dell’Onnipotenza che brucia se stessa nel delirio degli effetti speciali, resta uno degli spettacoli più conturbanti della passata estate cinematografica. Il lato più nero della coscienza più candida tra trionfo delle pulsioni più sfrenate e bisogno di regole certe di convivenza e di amore.
Il bisogno di ripensamento della concezione di eroe tocca anche le due anime più importanti del cinema americano contemporaneo, i due estremi delle scelte politiche e sociali dell’intellettuale statunitense: il rosso Oliver Stone di World Trade Center e il repubblicano Clint Eastwood di Falgs of our fathers. Ma, come ormai chiaro da quanto detto sinora, anche questi estremi sono illusori e di difficile definizione.
Oliver Stone, a fronte delle menzogne del suo paese imbarcato nella Guerra al Terrorismo, sceglie, sorprendentemente, la strada del ripiegamento e della facile retorica. World trade center è la magnificazione di un modello eroico molto vecchio stampo e molto comune in certo cinema ottimista statunitense: l’eroe del qutodiano, l’uomo qualunque che, calato suo malgrado in situazioni al di là della sua stessa immaginazione, scopre dentro di sé doti ed energie insospettate.
Gli eori della sua pellicola sono i pompieri, quei vigili del fuoco che sono, per primi, entrati nelle Torri Gemelle per cercare di salvare quante più vite possibili. Persone, insomma, soprprese dalla macchina da presa, mentre sono semplicemente intente a compiere il proprio dovere.
Eroi di tutti i giorni, a dirla tutta, che superati i primi venti minuti della pellicola (i più riusciti e compatti) sono, intenti, per tutta la durata del film, a fare la cosa meno eroica di questo mondo: semplicemente sopravvivere.
Eppure non c’è polemica nello sguardo di Stone. Non c’è derisione di quel meccanismo mediatico, che, prese queste persone qualunque dal loro contesto, ne fa simboli viventi di un desiderio di rivalsa e di ripresa. Il regista americano non è polemico nemmeno quando mette in campo il marine giunto da chissà dove per chissà quali motivi che comincia a rovistare tra le rovine del World Trade Center in cerca di sopravvissuti. La sua parlata, il suo modo di pensare, ancora e nonostante tutto, all’invincibilità del sogno americano non riescono ad apparire del tutto fuori tono in nessun momento della pellicola. La sua volontà di cercare una forma di eroismo consapevole che va ad urtare contro l’eroismo inconsapevole dei due vigili del fuoco seppelliti dalle travi è solo la resa di una medaglia a due facce che, da qualsiasi parte la si giri, resta sempre brillante ed invitante. E anche se sulle macerie riesce a trovare spazio un barbecue in cui vengono magnificati wurstels e hot dogs, il paradosso non porta a nessuna riflessione ulteriore: la realtà è quella e l’unica cosa che conta, nella tragedia epocale, è il tornare in seno alla famiglia, unico organismo ancora sano in un mondo impazzito.
Paradossalmente è lo sguardo di Eastwood, in un contesto in cui il regista che si autodefinisce come il più progressista d’America realizza una pellicola così reazionaria, ad essere più lucido e più rivoluzionario.
Flags of our fathers è un film tutto coniugato al passato, ma è, al tempo stesso, anche la pellicola che meglio ha saputo descrivere il presente in tutte le sue contraddizioni.
Fin dal suo incipit straordinario, in cui vediamo dei soldati che, tra esplosioni, piantano al suolo la bandiera americana per poi scoprire che quelle esplosioni sono fuochi artificiali e il tutto è una messa in scena da stadio ad uso delle masse, è evidente che l’intenzione del regista non è scoprire vecchi eroi, ma rendersi conto di quanto sia perverso quel meccanismo che obbliga una società ad inventarne sempre di nuovi.
Uno sguardo brechtiano, insomma, che in un meccanismo corale di vasta portata (difficile distinguere tra Ryan Phillippe, Jesse Bradford, Adam Beach, Barry Pepper o Jamie Bell) ricorda che la Guerra è prima di tutto messa al macello di corpi e poi di sogni, di speranze, di amicizie e di fede.
Clint Eastwood riflette, polemicamente, sul fatto che, come per gli X-men, nessuno dovrebbe mai desiderare di essere un eroe, perchè essere tali è portarsi addosso una maschera e una maledizione.
Se Oliver Stone arrivava alla conclusione che tutti possono essere eroi, Clint Eastwood, con acume straordinario, ribalta la questione dimostrando che nessuno lo è.
Eroi ed eroismi sono invenzione dei governi e delle bandiere. Al di qua resta solo il desiderio (alla Ungaretti) di abbandonare quella divisa che ci fa tutti militi ignoti, per immergersi nell’acqua di un bagno ristoriratore e rigenerante: l’unico ricordo che chiude, con mestizia ed amarezza, uno dei film più belli della passata stagione.
[Gennaio 2007]
I film citati in questo articolo:
Superman returns di Bryan Singer
X-men 3 di Brett Ratner
World Trade center di Oliver Stone
Flags of our fathers di Clint Eastwood
