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Ascanio Celestini, l’affabulatore parla del suo film a Tor Vergata

Pubblicato il 1 aprile 2011 da Laura Khasiev


Ascanio Celestini, l'affabulatore parla del suo film a Tor Vergata

La pecora nera è l’animale che tra tutti i suoi simili si distingue per il colore. Il gregge è, infatti, composto da pecore bianche. Quella nera è una sola...
Ascanio Celestini ha scelto quest’ovino perennemente controcorrente come titolo per il suo spettacolo. Spettacolo che, nel tempo, è diventato libro e, infine, è passato al grande schermo.
In occasione dell’uscita in dvd del film, passato nelle sale cinematografiche già da qualche tempo, l’affabulatore romano è venuto nella facoltà di Lettere e Filosofia di Tor Vergata a raccontare il suo suggestivo percorso alla ricerca di storie, che, come parti di un puzzle, costituiscono il fascino della sua affabulazione a cavallo tra teatro, letteratura e cinema.
Grazie alla sua abilità di “narrautore”, Celestini ha saputo trasformare quella che altrimenti sarebbe stata una conferenza frontale, in un’affascinante “viaggio” nel mondo di coloro che sono definiti “matti”, e che portano dentro se stessi un mondo tutto da scoprire. Un mondo, quello di cui stiamo scrivendo, a stento visibile celato com’è da una cortina di pregiudizi che ne impediscono la vista pur suggerendone la presenza come una nebbia insidiosa ed equivoca.
Ed è proprio il pregiudizio a far sì che il povero Nicola, che ebbe come unica colpa quella di esser figlio di una donna reputata “pazza” e rinchiusa in un manicomio a consumare i suoi giorni, finisca in un manicomio a sua volta ad affannarsi nel tentativo, dettato dalla sua fantasia di un bambino, di colmare il vuoto creato da una madre assente e da un padre privo di sensibilità.
La storia dello spettacolo, in cui le scene sono state “disegnate” dall’evocativa voce di Ascanio in una pura operazione di teatro di parola, non può esser traducibile in una trama. Se ne perderebbe l’enfasi, la poeticità. Quel che si può tentare di spiegare è come la suprema bravura di Ascanio ha regalato al suo monologo teatrale delle immagini che, evocate dalla voce, hanno continuato a vivere nel tempo, sino a quando non le si è potute ri-conoscere attraverso l’altro codice artistico, quello cinematografico.
Esempio di fedele ri-lettura, l’opera cinematografica che del teatro riprende la fabula, non è, però, solo lettura e visione di una storia, ma punto d’incontro ideale con delle problematiche sociali che altrimenti non sarebbero state affrontate.
Di qui un dialogo tra teatro e cinema in cui l’autore si addentra in un viaggio su una condizione psichica che è anche esistenziale e muove dalla presa di coscienza che riguarda non solo la condizione di coloro che hanno problemi di mente, ma anche quella delle persone che di questi si prendono cura.
Ascanio Celestini ha raccontato come è avvenuta la sua raccolta di informazioni ed immagini, di parole e vicende.
Le interviste agli infermieri hanno costituito la struttura di questo lavoro, che poi è stato arricchito con i racconti di amici, come quello del “castello di sabbia che non distruggerà mai nessuno perché finirà sotto le acque del mare...” o come le parole che chiudono poeticamente la vicenda, prese proprio da Alberto Paolini, un uomo che pur essendo autosufficiente, ha trascorso parte della sua vita in manicomio e, oltre ad aver fornito la sua storia al nostro narratore/regista, ha anche preso parte nel film.
L’intero lavoro si è, quindi, incontrato con le esperienze personali di tante persone e con la loro intrinseca poeticità, dando via ad una riflessione in cui diverse forme d’arte svolgono davvero la loro funzione etica e sociale in un modo che avrebbe lasciato contenti Antonio Gramsci, Antonin Artaud e quanti, come loro, aspiravano alla realizzazione di un arte che avesse riscontro nella prassi.
Così tanto lo spettatore di teatro quanto quello del cinema è stato introdotto in quel mondo apparentemente lontano dei manicomi, delle clausure e degli elettro shock che sono stati gli strumenti per annullare le identià e produrre l’annichilimento della persona che da sempre è l’obiettivo di chi detiene un potere, qualunque esso sia. Il parallelismo acuto di manicomio/supermercato, affrontato da Celestini è l’emblema di tale procedimento.
Nel manicomio i malati che venivano considerati meno “gravi” erano coloro che parlavano meno, che facevano uscire il meno possibile la loro personalità. Oggi al supermercato tutti sono dei numeri, individui senza nome, che effettuano la loro spesa e spariscono.
Questo doppio processo di spersonalizzazione è inquietante e l’affabultaore ci mette in guardia su ciò da cui non si è mai completamente esenti: il pericolo di essere annullati. E’ questa la vera grande tematica che fa da perno alla storia di La pecora nera.
Ascanio Celestini ha, infine, motivato il suo passaggio dal teatro al cinema con la consapevolezza che la sua prorità è stata sempre quella di comunicare con le immagini, siano esse evocate dall parola o veicolate attraverso lo schermo. Solo con esse, infatti, si arriva dritti alla coscienza del pubblico. Soprattutto in un periodo come questo, di grandi mescolanze ed in cui nulla è fisso, egli ha sentito il bisogno di ricoprire ogni settore, di compiere un percorso nel percorso e di mostrare la storia da lui creata attraverso le mille sfaccettature che il nostro presente ci consente, facendo convivere un’atmosfera antica assieme a modalità supermoderne e riuscendo ancora una volta a sorprendere piacevolmente il suo pubblico. E’ questo il senso di quella “confusione”, così l’ha chiamata lui, di quella sorta di caos, dalla quale è nata la “stella danzante” prevista da Nietzsche, e che per il regista ha costituito il motore del “salto” tra un media e l’altro.
Il risultato è ancora tutto da studiare.


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