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Assandira

Pubblicato il 10 settembre 2020 da Francesca Pistocchi

VOTO:

Assandira

Dal 9 settembre anche in programmazione nelle sale italiane.

Giunto ormai alla sua nona pellicola, Salvatore Mereu ripercorre le fila della sua terra natia. La Sardegna di Assandira è esattamente come dovrebbe essere: inquietante, tragica, abbagliante, prorompente nella propria sofferta abbondanza. E così sono anche i protagonisti della pellicola tratta dall’omonimo romanzo di Giulio Angioni: nell’impassibile indifferenza di Mario (Marco Zucca) e nella prosperosa vitalità di sua moglie Grete (Anna Koenig) si leggono i vocaboli che, in questa terra di nessuno, riscrivono passato e presente. Ma tutta la vicenda,l ambientata negli anni Novanta, ruota attorno a Costantino (un Gavino Ledda straordinario, reduce dal celebre Padre padrone), il vecchio Pater familias, unico superstite del rogo in cui si sbriciolano le vite e i sogni dei due coniugi. La pellicola, di certo una delle migliori opere italiane, tra le tante, presentate a Venezia, esordisce nel buio e nel fango e, come in ogni noir deduttivo che si rispetti, si struttura su una serie di flashback con cui pubblico e regista ricostruiscono gli avvenimenti che porteranno all’incendio del villaggio turistico gestito dai protagonisti.

Veniamo così introdotti in un microcosmo familiare dalle tinte paurose: l’aria è carica di un malessere che probabilmente possiede radici ben più profonde di quanto il racconto non sveli a parole. Mario e la compagna tedesca Grete vogliono ristrutturare il vecchio podere di Costantino e trasformarlo in un resort esclusivo: inizia così la parabola discendente di una comunità perduta. Il casale diventa un albergo, all’improvviso c’è gente dappertutto, l’idioma dei nuovi coinquilini è incomprensibile. L’anziano pastore e suo figlio devono recitare la propria parte, indossando maschere ributtanti. I rapporti fra i tre si sfarinano e l’atmosfera si fa via via più disturbante, perché essa viene rievocata attraverso lo sguardo incredulo dell’unico sopravvissuto: così Costantino, ridotto a vuoto involucro fra le mani dei giovani amanti, si ritrova a donare a Grete il figlio che Mario non riesce a darle. Una tale genealogia è destinata ad esaurirsi in sé stessa, ma chi narra gli eventi sa bene che non si tratta di una sorte funesta – un primo indizio è dato dal termine “vergogna”, quasi si trattasse tanto di una maledizione da cui non si può sfuggire, quanto di un’antica litania ripetuta a fini espiatori. Questa vergogna si dipana in tutte le sue sfaccettature più morbose: nell’atteggiamento lascivo di Grete, nella passiva indolenza di Mario, nell’aggressiva esuberanza del fattore Peppe Bellu (Samuele Mei), nella sadica superficialità con cui i vacanzieri fotografano il graduale e inarrestabile degrado di tradizioni secolari, nel sottobosco disastroso che ammorba l’intera tenuta. L’universo dei padri viene corrotto, invaso, colonizzato, vivisezionato come una bestia condotta al macello. Il clima è soffocante e l’aria in sala irrespirabile ma, come Costantino, non possiamo fare a meno di sentirci attratti da ciò che ci ripugna. I personaggi sembrano ronzare attorno a questo mondo nauseante come api attorno al miele, il viscerale sguardo della cinepresa si focalizza progressivamente sui corpi e sulla carne – quella degli animali morti fra le fiamme e trascinati al mattatoio, così come quella dei visitatori intenti a sfogare i loro feroci istinti a miglia e miglia da casa propria (ma nascondendosi in casa d’altri). Uomini e bestie si sovrappongono in continuazione, ad Assandira la civiltà moderna smembra e annienta ogni paradigma sociale: i cavalli del maneggio vengono fatti accoppiare di fronte ad una massa di inurbati selvaggi, ragazzi e ragazze vagano per la campagna ridendo come folli, il divertimento si trasforma ben presto in barbarie e la terra ritorna paradossalmente primitiva, matriarcale, impervia.

Dalla prima all’ultima inquadratura, anche noi finiamo per vergognarci di fronte ad una normalità non più normalizzata: l’abilità del regista è proprio quella di distorcere il quotidiano utilizzando, a tal fine, occhi che non sono i nostri e che provengono da una realtà lontana anni luce. E in fondo, i paurosi rituali con cui la Storia e la sua memoria vengono orrendamente mercificate non sono altro che allarmanti premonizioni di un futuro brullo, arido, fuligginoso. L’intento di Mereu (e di Angioni stesso) pare essere quello di farci sentire a disagio, di imporci una crescita dolorosa, di smuoverci dall’eterno torpore della nostra condizione di figli e di renderci, almeno per una volta, padri.


CAST & CREDITS

(Assandira); Regia: Salvatore Mereu; sceneggiatura: Salvatore Mereu; fotografia: Sandro Chessa; montaggio: Paola Freddi con Antonio Cellini; interpreti: Gavino Ledda (Costantino Saru), Anna Koenig (Grete), Marco Zucca (Mario), Corrado Giannetti (Giudice Pestis), Samuele Mei (Peppe Bellu); produzione: Viacolvento (Elisabetta Soddu, Salvatore Mereu), Rai Cinema; origine: Italia 2019; durata: 130’.


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