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Berlino/Tanzimaugust: Meg Stuart/ Damaged Goods

Pubblicato il 9 gennaio 2012 da Paolo Sanvito


Berlino/Tanzimaugust: Meg Stuart/ Damaged Goods

BERLINO - VIOLET

Meg Stuart, come annunciato nel programma del festival Tanzimaugust, ha creato „what she considers her first ‚abstract’ work“. Qui dunque si tenta di rappresentare l’astrazione del movimento coreografico, non l’azione (scenica o meno), quindi un movimento della performance pura, senza possibilità di essere identificato con alcun valore significante. Eppure lo sa bene: è impossibile distaccare e astrarre la percezione di qualunque movimento corporeo da associazioni semantiche e significanti. Questa è una sfida, e una croce di tutta la danza contemporanea: come rappresentare il movimento puro, senza significati? Un tentativo, con „Violet“, valeva la pena. Sulla scena ha messo cinque danzatori ognuno di forte personalità e di potente presenza scenica; nessuna seduzione, perché non è della bellezza che si tratta. Dietro di loro c’è una cortina di latex nero che, essendo nero e coprendo l’intero sfondo, elimina ogni senso significante. Oppure proprio per questo lo accentua? È comunque una scelta estetica. Stuart è già solita andare nei più torbidi anfratti -sia dell’umano che del disumano, in quelli del disturbo e della malattia mentale, nella violenza sessuale, del sessismo o perfino della hollywoodyzzazione del quotidiano, anche in Europa. Questo dunque è solo uno tra i tanti casi di reazione estrema ad un impulso, che la coreografa sperimenta. I danzatori si muovono come pistoni di una sala macchine. Siamo ancora nell’era industriale, che fa sí che le persone qui sulla scena diventano macchine: ciki-ciak- ciki-ciak- ciki-ciak-tut-tuut, ecc. ecc. Non importa quali movimenti compiano, ma importa la loro reazione meccanica - che copre quasi tutta la durata del brano. I muscoli cedono ad un certo punto, e diventa più un movimento da crisi epilettica nei suoi momenti di acme, poi ridiventa un ballet mécanique, - ma non più quello surrealista. Il suono lo offre il noto percussionista berlinese Brendan Dougherty, che suona dal vivo sullo stesso palcoscenico una musica „industrial“, o „rumorista“, o quant’altro si voglia dire, - ma non più quella del Futurismo. E’ molto invasiva, forse quanto lo era quella dei Marinettiani e di Russolo, nei confronti il suo pubblico. Che a Berlino è estasiato - a Napoli nel 1910 tirava pomodori sulla scena di Marinetti. I danzatori reagiscono a questo tipo di sound coerentemente; il rumore è concretissimo, come quello di qualche Stahlwerk della Ruhr, o forse a volte è come quello, ritmico animale, di qualche insetto. Anche i rumori naturali ormai sono diventati mutanti, qui. Si potrebbe cercare di identificare le diverse fasi di trasformazione del movimento, fino ad arrivare a quella epilogica, ma ci si chiede se esista, per la coreografa, una scansione. Il ritorno, dopo diverse fasi, al movimento frenetico e forsennato della parte iniziale, fa credere che per Meg Stuart non esista requie, non ricomposizione, né riscatto, si assiste invece qui ad un vorticoso loop che non si ricompone mai, e non ha altro esito possibile che il collasso di ogni membro del gruppo, forse dell’individuo - ammesso che Stuart veda i membri delle comunità umane come individui. Non lo sappiamo, ma almeno abbiamo alcune poche prese di posizione della coreografa in interviste: perché, infatti, „Violet“? Non c’entra il mito dei teatranti italiani, che considera il color viola diabolicamente sfortunato. Per la coreografa esso „is both a colour and the very place where the idea of colour tends to fade away, the last colour before the unknown“. E perciò i corpi (dei danzatori) emettono, come dice il testo, „sounds that come from elsewhere. The choreographer has buried herself“, apparentemente, in libri d’alchimia, nella Bibbia, „combining physical and occult sciences“... Quest’aspetto misticheggiante, se è davvero così, tuttavia non è palesemente evidente nell’attuale versione del brano: pervasi e assaliti dal suono industrializzante, gli spettatori sono soprattutto confrontati con la propria forza di resistenza, e qui di certo in modo reale, efficace del quale si può rendere ben ragione alla Stuart. Ci si attende che in un’altra occasione quest’ultima riesca a farci percepire di più quelle voragini di ultramondi e di processi alchemici, che tanto ci sedurrebbero, ma non sembra, almeno all’apparenza, aver trasmesso ai suoi cinque co-coreografi.


Coreografie: Meg Stuart Co-coreografato e danzato da: Alexander Baczynski Jenkins, Adam Linder, Kotomi Nishiwaki, Roger Sala Reyner, Varinia Canto Vila Live-Musicians: Brendan Dougherty Produzione: Meg Stuart/Damaged Goods (Bruxelles) Coproduzione: PACT Zollverein (Essen), Festival d’Avignon, Festival d’Automne (Paris), Les Spectacles vivants – Centre Pompidou (Paris), La Bâtie-Festival de Genève, Kaaitheater (Brüssel) › In Zusammenarbeit mit: uferstudios (Berlin) Sponsor: Governo della Fiandra - Commissione della Comunità fiamminga Di: Meg Stuart/Damaged Goods e RADIALSYSTEM V


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