Bloody nightmare

L’11 settembre è stato il momento in cui l’incubo peggiore della coscienza americana ha rotto gli argini delle mura del sonno per tracimare nella Realtà rassicurante e quotidiana del mondo diurno. Di fronte a questa tragedia le cui proporzioni si sono, col tempo, sempre più allargate (e sempre più allontanate dal “sacro” suolo americano) la risposta di Hollywood era stata, in un primo tempo, quella di un ritorno allo spettacolo tout court scevro da ogni preoccupazione realistica. Bisognava che i tempi di Latherface (The Texas Chainsaw Massacre) o di Jason (Venerdì 13) tramontassero rapidamente e che le loro maschere, sporche dei colori di una vivida realtà mostruosa (quella del sogno americano convertitosi in incubo), dissolvessero nel nero di una notte senza sogni. Come fabbrica di immagini dorate, l’industria del cinema pensò bene di coprire con il sipario/sudario svagato di visioni elegiache, l’orrore della realtà.
Fu una scelta sbagliata (e se ne accorsero subito i magnati dell’industria) perché il pubblico non chiedeva, dopo lo shock, una semplice operazione di rimozione, ma pretendeva di essere messo in grado di elaborare il lutto, di convertire l’immagine della barbarie in qualcosa di conoscibile e certo. L’imperativo categorico era, quindi, quello di ridonare, insomma, un limite al mondo attraverso la catarsi, l’epurazione dei sentimenti forti, ma senza esagerare, senza mettersi troppo in discussione. Di qui il ritorno al genere bellico, alle favole gotiche, ad un’immagine del sangue (che si potesse dire falsa) e all’orrore (che fosse solo gioco).
Non stupisce, allora, che Hollywood, a corto da tempo di idee originali, si gettasse a capofitto nel serbatoio di miti e leggende del grande cinema horror degli anni ’80, negli slasher di Jason o tra gli artigli uncinati di Freddy Krueger (non a caso riuniti in una sola pellicola per puro gusto ludico). Con una differenza copernicana: mentre l’horror degli anni ’80 fondava il mito (del mostro) per tornare a parlare della Realtà (più mostruosa dello stesso mostro), oggi come oggi, è la Realtà a ricorrere al mito per fuggire da se stessa. Di qui un impoverimento della carica semantica del genere che sembra sempre più esaurirsi nella riproduzione di stilemi e situazioni senza ricercare l’eversione e la decostruzione del mondo capitalista di cui siamo parte. Di qui, quindi, l’impoverimento della dimensione metalinguistica del sogno all’interno del film (un incubo all’interno di un altro incubo).
Le più recenti pellicole, ossessionate come sono dall’esigenza di ricostruire miti certi e comprensibili (si pensi alla ricostruzione del nucleo familiare nel remake di The Texas Chainsaw Massacre che negli anni ’70 quello stesso mito distruggeva) sembrano non avere interesse a sfruttare l’ambiguità tra sogno e realtà che era stata foriera di capolavori intramontabili. Anche in Jeepers Creepers 2, dove fa capolino l’unica sequenza onirica memorabile di questo scorcio di nuovo millennio, si è persa quella capacità di fare del sogno sia una sorta di specchio complesso dell’immaginario collettivo, sia un diaframma invisibile che separa le mostruosità della notte dalla razionalità ordinata della vita quotidiana, l’abisso delle nostre pulsioni animalesche dalle alte vette dello spirito e della creatività.
Si rimpiange allora, e vivamente, il modo in cui l’incubo era stato capace di imporsi come vera e propria sintesi di opposti, vivendo le contraddizioni di un doppio statuto che ne sanciva la dolorosa ambiguità: parte di noi, espressione di una nostra realtà psicologica rimossa, ma, al tempo stesso, abnormemente altro da noi, visione di un mondo rigorosamente posto al di là di uno specchio carrolliano pericolosamente osmotico con le realtà rassicuranti del mondo della veglia. La sua potenza devastante risiedeva, quindi, tutta nel conflitto insanabile tra le definizioni del nostro essere sociale (e, quindi, del nostro Super Io) e i desideri inappagati del bambino che ci portiamo dentro nel corso della nostra intera esistenza (e, quindi, degli impulsi del nostro subconscio). La sua vitalità sanguigna stava, quindi, tutta nella sua capacità di sedurci atterrendoci, di ammaliarci con la sua sensualità sfrenata proprio nel momento in cui rivelava la propria (e nostra) ferinità spaventosa.
Il Nightmare di Craven era, per questo, capace di essere al tempo stesso psicologico e politico, sociologico ed antropologico; parlava del mondo in trasformazione dei teen ager e rivelava l’abonormità del mondo degli adulti, raccontava l’orrore citando Shakespeare.
Freddy vs Jason, per converso sembra, come tutti gli horror di oggi, aver perso tutta quell’energia rivoluzionaria che, negli anni ’80, era stata capace di illuminare, con il buio della notte, gli orrori tangibili del nostro mondo diurno obbligandoci a buttare la maschera del perbenismo con cui ci relazionamo al mondo per rivelare l’inappagato mostro che alberga nelle nostre stesse coscienze.
[aprile 2004]
