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BlueBird Bukowski

Pubblicato il 23 febbraio 2016 da Alessandro Izzi


BlueBird Bukowski

Gelida, livida si accende una luce della sala di un obitorio.
Al centro, una salma sembra aver dimenticato anche cosa sia l’attesa. Imponente, coperta da un lenzuolo bianco, figura di scorcio per il pubblico in sala, come il ricordo di un Mantegna che ha perso per strada il sacro e si è lasciato coprire dal gelo asettico di un’anonima indifferenza.
Corpo, alla fine. Un puro e semplice corpo che trionfa, per estremo paradosso, nel momento stesso della morte, con tutto il peso di una fisicità ingombrante. Una salma di cui si intravedono appena i piedi, non troppo puliti, con le unghie lunghe di chi non si aspettava di morire e non si è quindi preparato all’incontro con la triste mietitrice.
È il corpo di Bukowski, ma gli presta le estreme cure, con professionalità distratta, un’infermiera che non sa niente di poesia, che non ha mai letto il grande scrittore e che, per questo, non capisce il clamore che circonda l’obitorio o la folla di giornalisti che invano chiedono di poter fare un ultimo scatto a quel cadavere di un mito.
Piuttosto ci gira intorno con la freddezza di una che è abituata a maneggiare carne fredda e che si è fatta fredda dentro, sin nelle ossa e nel sesso asciugato da ogni piacere.
Di lei sappiamo poco. Che ha una pistola nella giacca lisa che mette, nelle pause dal lavoro, per fumare fuori una sigaretta. Che conosce poche persone e che ne cerca altre, per telefono, goffamente, ricacciata da tutti.
Giovane lo è ancora, ma ha una vecchiezza nei movimenti secchi e nervosi, nella rabbiosità dei gesti, nei silenzi contratti (efficacissima Mary Dipace) che tradisce una vita già delusa, che ha perso il calore dello sguardo con quello dell’orgasmo.
Poi, per strano buffo capriccio del caso, quel cadavere riprende vita, come in un racconto di fantasmi che si è lasciato indietro ogni metafisica e resta piuttosto ancorato al peso della carne. Comincia così un dialogo da antinferno tra due personaggi l’uno prigione dell’altro.
A confrontarsi, quindi, il corpo gigantesco e senza vita di un uomo (e un poeta) consumato dalla fame di vita, dalla sete di alcol e sesso e quello altrettanto senza vita, pur se continua a muoversi e a respirare, di un corpo che quella fame e quella sete non le conosce più da troppo tempo.
In una logica speculare le due solitudini si riflettono sotto il freddo neon dell’obitorio, si attirano, sentono il bisogno di compensarsi come vasi comunicanti.
L’avvicinamento non è, però, senza spine e punge come il freddo di una notte senza vita, ma anche senza morte.
Bukowski ascolta il tormento dell’altra e la desidera, ultima concessione alla fame del suo corpo, ma anche strana realizzazione della possibilità di un donarsi, per una volta, dopo aver tanto preteso con una foga che celava l’ansia del silenzio e del non essere. Proprio lui che scriveva per salvare prima di tutti se stesso, proprio lui per cui la poesia era una medicina da trangugiare in fretta, che bruciava curando, che distruggeva salvando e che avvicinava una morte temuta e sospirata al contempo.
Da parte sua Linda (che ha lo stesso nome dell’ultima moglie del poeta) ascolta il tormentato lasciare la vita del poeta e lo rifiuta pre-sentendo però che quel cadavere che le parla è il fondo scuro del suo tunnel, l’ultima stilla del suo calice doloroso.
Frattanto la scatola asettica dell’obitorio si rimodula con pochi gesti d’attore e con un continuo cambio di luci magnificamente architettate che accompagnano il graduale sentimento di confidenza che supera la prima incomprensione dello scoprirsi troppo uguali pur nelle palesi differenze di due personaggi che ci assomigliano troppo per non farci paura.
C’è poca biografia in BlueBird Bukowski. Quella che c’è è piuttosto nei dettagli, negli spazi di alcuni dialoghi dal taglio formidabile, negli angoli bui di piccole rievocazioni che spezzano il quieto andamento della scena senza interromperne il ritmo ineluttabile.
C’è anche poco bukowskismo, poca esaltazione dei tratti esteriori che hanno fatto la gloria del poeta e il motivo del suo sostanziale fraintendimento presso molti, troppi giovani.
C’è piuttosto l’incontro tra due dolori che riempiono la scena. L’incontro tra due corpi che cercano nella fatica della carne, nel calore gemente dell’amplesso, una via allo spirito che sia riconciliazione, mai consolatoria, mai posticcia, con le contraddizioni della vita.
E un senso di poesia, dolente e carica, che passa dalle parole del bellissimo copione di Riccardo Spagnuolo alla splendida geometria della regia di Licia Lanera e che sboccia, infine, con la sofferta potenza della primavera, nella superba interpretazione di Vito Signorile che vomita le sue parole con la furia dolce di un’imprecazione che si avventura tra le altezze di una possibile poesia. La sua più che una prova d’attore è un regalo che il pubblico non può che accettare, infine, spossato da tanta intensità, ma grato.


BlueBird Bukowski
Drammaturgia: Riccardo Spagnulo
Regia: Licia Lanera
Interpreti: Vito Signorile e Mary Dipace
Luci: Vincent Longuemare
Realizzazione scene: Michele Iannone
Responsabile tecnico: Roberto De Bellis
Produzione: Teatro Abeliano Bari


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