Cheyenne e il suo deserto. Suggestioni antonioniane per This must be the place

In questi anni, i personaggi di Paolo Sorrentino hanno continuato a
camminare. L’impiegato della mafia Titta Di Girolamo (Toni Servillo), lo
spietato usuraio Geremia de’ Geremei (Giacomo Rizzo), il politicofantasma
Giulio Andreotti – protagonisti, rispettivamente, de Le
conseguenze dell’amore (2004), L’amico di famiglia (2006), Il Divo(2008) – rimanevano invischiati in una vita criminosa quanto violenta,
senza possibilità di salvazione: il regista napoletano saggiava la
condizione umana nella (dis)misura di un certo abbrutimento morale, d’un
intorpidimento della coscienza o qualsivoglia moto affettivo – i
sopraccitati Titta e Geremia, ad esempio, vivono il sentimento amoroso
con esiti fatali –, conseguenti alla colpevolezza e all’immoralità. Nel
momento in cui scriviamo, la bruttezza sorrentiniana si è per così dire
deformata coagulando nel bianco mascherone di Cheyenne (Sean Penn),
personaggio assoluto di quest’ultimo This must be the place. Di là dalla
noia per un’esistenza abbiènte nondimeno scalfita dai postumi della droga, l’ex-rockstar ora ‘in pensione’ guarda il mondo con amaro stupore: ed è proprio questa visione delle cose ad esasperare il suo decadimento.
Insieme ad un Penn sgomentato, per esempio, assistiamo all’esibizione
d’una band giovanile in un luminosissimo e stinto centro commerciale; e
ci vien fatto di ripensare a Michelangelo Antonioni, con una particolare
suggestione: Cheyenne, percorrendo a un tempo le vie d’una
contemporaneità che lo annichilisce, sembra frugare tra le fila dei giovani
appassionati ribelli di Blow up (1966) e Zabriskie Point (1970) alla ricerca delle proprie origini (cinematografiche), mentre gli anni della
contestazione studentesca sfumano inevitabilmente nella dimenticanza;
come pure il poetico colorismo antonioniano, che ora vira nella gelida
acronìa dei supermercati. Ancora potremmo dire che il paesaggio
sapientemente immaginifico del maestro di Ferrara è ‘alterato’ dagli
odierni non-luoghi americani attraversati dallo sguardo del (fu) metallaro:
la sabbia desertica accarezzava i corpi nudi di Mark (Mark Frechette) e
Daria (Daria Halprin) distesi sullo Zabriskie Point, in una sessualità
gioiosa strettamente intessuta all’ambiente naturale – Antonioni già
riscattava l’abbraccio venefico dei due amanti de Hiroshima mon amour
(Alain Resnais, 1959), cristallizzati dalla cenere di una esplosione atomica
–; al contrario, quando Cheyenne umilia l’anziano criminale nazista
costringendolo a camminare nudo sulla neve, le strade dell’America di
Sorrentino vanno esaurendosi, disfacendosi, ingarbugliandosi nelle pieghe di quel vecchio corpo raggrinzito – anche lo spettatore-viaggiatore, per un attimo, smarrisce la via – e scontornano sublimando nel bianco, emblema della morte e del caos universale.
Tuttavia interpretiamo il viso pittato di Cheyenne come un trucco
che può essere lavato via. Basti guardare al momento in cui le diapositive
sugli ebrei dei lager si alternano ai volti degli studenti di oggi
componendone un continuo ed unico mosaico etnico, per capire che quella del regista napoletano è una rappresentazione del diverso capace di riflettere su se stessa. Cheyenne smette i panni dell’artificio, dunque si
salva: non tanto vendicando l’affronto subìto dal padre (nel campo di
Dachau), quanto per il raggiungimento d’una intuizione che pure titola il
nostro film: questo deve essere il posto. Il luogo in cui ci siamo persi –
passaggio di accadimenti delittuosi, di genocidi razziali, di paure
ancestrali (si pensi al bambino col terrore dell’acqua), di occasioni perdute
(Mary «ragazza triste» non si lascerà andare ad un possibile amore), di
equilibri precari (è eloquente la panoramica sul ragno che tesse la tela
appena sopra il filo spinato) – sarà, probabilmente, lo stesso luogo in cui ci ritroveremo.
Quale (altro) posto, se non questo?
