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Chovanščina alla Scala di Milano

Pubblicato il 19 marzo 2019 da Anton Giulio Onofri


Chovanščina alla Scala di Milano

Non tragga in inganno il Preludio, un’alba tranquilla, un placido sole nascente da fiaba orientale: dopo note così serene e trascolorate potrebbe seguire una qualunque favola o leggenda a lieto fine di fate, principesse e cavalieri. Invece, estinto il tremolo degli archi, il sipario svela, qualunque sia la regia, un cupo e venefico scenario di arretratezza e instabilità geopolitica: la Mosca del XVII secolo, negli anni che precedono la salita al trono di Pietro il Grande. Per questa Chovanščina, il magnifico spettacolo scaligero che un rapido e istintivo passaparola ha eletto in poche settimane tra gli imperdibili dell’anno, Mario Martone ha immaginato, insieme alla scenografa Margherita Palli e alla costumista Ursula Patzak, una metropoli bladerunneriana, futuribile e decadente, sorvolata da droni e fumigante di mefitici miasmi, ispirata più che al film di Ridley Scott, al recente aggiornamento di Denis Villeneuve, in cui nuove e più attuali solitudini sono andate a stratificarsi sugli umani umori postchandleriani del film del 1983. Tra selfie di gruppo ed epistole amorose via whatsapp sui cellulari, gli affetti, i rancori, le gelosie, le ambizioni, insomma l’intero catalogo della campionatura sentimentale che da sempre l’opera lirica mette in scena e che ne decreta la buona fortuna, sono sempre gli stessi, e per tutti identici. Ma qui la tragedia coinvolge, insieme ai singoli, un intero popolo, sbandato, insicuro, dilaniato da fratricide lotte interne, guidato da capi ambiziosi ma altrettanto incerti e confusi, privi di una visione concreta sul da farsi per non venire travolti dalla implacabile fiumana della storia. Un impero popolato di balordi, accattoni, miserabili, cafoni e nuovi ricchi, non dissimile dalla Russia scriteriata e corrotta che ci lascia intuire l’odierna cronaca: è così che l’ha immaginata Martone, popolando la scena di disperati abbigliati come nei fumetti di Moebius ed Enki Bilal, di uomini impellicciati fino ai piedi, di escort statuarie, di sinistri poliziotti e sicari prezzolati, E’ la stessa musica di Modest Musorgskij, di qualità sempre altissima ma mai complessa al punto di risultare ostica, difficile, distante, ininterrottamente sorretta da un senso del teatro che ha dello stupefacente, a tirarci dentro con occhi e orecchie nella mischia dei tumulti pubblici e privati dei Chovanskij (Chovanščina vuol dire ‘una Chovancerìa’, o ‘una roba da Chovanskij’), del principe Golicyn, dei raskolniki, degli strel’cy, della strega Marfa e della giovanissima Emma, dei loro amori, della loro congiura, del loro tragico destino: intrisa di canti popolari tradizionali e melopee ortodosse, la partitura strumentata da Shostakovich (che presumibilmente restituisce alla scrittura di Musorgskij, morto a neanche 42 anni, devastato dall’alcool, senza portare a termine l’opera nella sua integralità, quella magmatica trasparenza che la troppo carica color correction della versione di Rimsky-Korsakov aveva edulcorato e smorzato) trova nelle nervose mani di Valery Gergiev sapiente e amorevole guida: deve amarla in modo speciale, quest’opera torbida come un fiume in piena, perché dal podio indirizza ai professori d’orchestra e alla splendida e compatta compagnia cantante vistosi guizzi degli occhi e altri segnali facciali, contravvenendo alla sua proverbiale impassibilità, per ottenere da tutti dettagli e inflessioni che svelino ed esaltino l’ondivaga umoralità di un flusso sinfonico e lirico denso e impegnativo come una collettiva seduta psicanalitica. Nelle celebri danze persiane, dove Martone trasforma le danzatrici orientali previste nel libretto (redatto dal compositore stesso) in escort d’alto bordo impegnate in acrobazie sadomaso di gruppo per soddisfare le basse pulsioni del Principe Chovanskij, il grande direttore russo cancella ogni eventuale sapore turistico da ‘immagini dal mondo’, e imprime nelle sinuosità melodiche degli archi e degli strumentini un allarmato senso di costrizione, restituendo al momento la sua necessità narrativa e illustrativa di una condizione umana regolata da rapporti di potere che l’eros ribalta trasformando il carnefice in vittima, e naturalmente viceversa.

Non tutto, sulla scena, funziona alla perfezione, e nel mobilitare il coro la regia incappa talvolta in goffaggini e simmetrie coreografiche poco fantasiose, ma sono, in fondo, venialità che non compromettono l’impatto e la potenza di uno spettacolo che forse il pubblico stesso non si attendeva, ritrovandosi negli intervalli a dover gestire con disinvoltura mondana, fra un caffè o un prosecco con tartine, il lento rilascio di un’emotività scoperta, vistosamente riconoscibile negli occhi umidi e nelle espressioni turbate degli intervenuti. Al termine della rappresentazione, siamo tutti usciti dal teatro come dalla visione di Melancholia di Lars Von Trier, con gli occhi invasi dall’enorme sfera rotante del pianeta che distruggerà il nostro e ci consumerà nel rogo di un olocausto fatale e annunciato.


(Chovanščina); musica di: Modest Musorgskij; regia: Mario Martone; scenografia: Margherita Palli; costumi: Ursula Patzak; Maestro concertatore e direttore d’orchestra: Valery Gergiev; Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano


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