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Ci-vita Festival 2016 - Un bilancio

Pubblicato il 29 agosto 2016 da Alessandro Izzi


Ci-vita Festival 2016 - Un bilancio

Ci-vita: c’è vita. Nell’intenzione degli organizzatori della prima edizione del Festival di Civita di Bagnoregio c’è sempre stata, sin dall’inizio, la vocazione a una celebrazione della vita e della bellezza, intese nella loro accezione più alta.
Difficile, allora, dare il via alla manifestazione proprio il giorno dopo il terribile terremoto di Amatrice che ancora, giustamente, catalizza l’intera attenzione mediatica.
Difficile, se non impossibile, coniugare la dimensione di svago, sia pure culturale e di intrattenimento, sia pure intelligente, al dolore e al lutto che si sono abbattuti su tutta la nazione.

Qui a Civita, dall’altra parte dell’appennino, il terremoto si è sentito eccome.
I muri del paese, ci raccontano, hanno tremato e oscillato con forza nella notte silenziosa di un borgo che cessa ogni attività a mezzanotte in punto e resta solo, a sognare il buio e le poche strade deserte che corrono a un passo dallo strapiombo. Qualcuno ha pensato a una frana. Magari proprio l’ultima che si mangerà, prima o poi, questo pezzo di sogno costruito sul tufo.
Poi la notte è tornata silenziosa, ignara ancora del lutto che bruciava il sonno di paesi a poco più di un centinaio di chilometri da qui.

La verità è che il lutto è segno stesso di una vita che continua, malgrado un’assenza che ci si fa dolorosa vicina di casa. E non c’è contraddizione nel celebrare la vita, se lo si fa con gli occhi abbastanza bagnati dalle lacrime per quelli che non ci sono più e per quelli che ancora vanno avanti a guardare un cielo sempre più pieno di stelle e sempre più silenzioso a ogni domanda.
Così Ci-vita festival ha aperto i battenti con chiara cognizione di causa. Dedicandosi, in fondo, ai morti e lasciando molto alla sensibilità degli artisti coinvolti, la dedica silenziosa al ricordo con cui dovremo convivere.

Il terremoto, in fondo, è stato il convitato di pietra non invitato di tutta la manifestazione. Quello che ha bussato alla porta a poche ore dall’evento e che ha segnato, con la paura che s’è portato dietro, ogni momento. Considerando che il borgo di Civita è una realtà a rischio sismico, ma soprattutto geologico (il paese si sgretola un po’ per volta e aspetta quieto di farsi macerie), è lecito supporre che molte persone che avevano intenzione di recarsi al Festival, abbiano alla fine preferito non andare riducendo, con questo, la portata di un successo di pubblico che comunque c’è stato malgrado tutto.

Al di là di alcune criticità comunque tipiche delle prime edizioni, e al di là dei problemi anch’essi tipici di un calendario fitto di appuntamenti e al tempo stesso troppo costretto nello spazio di solo poche ore, Ci-vita ha dalla sua l’utopia di una manifestazione estremamente sfaccettata nel suo unire cibo, moda, cinema, teatro, fotografia, installazioni e videomapping in una sorta di villaggio globale delle arti e dei mestieri.
Idea, questa, che ci pare affascinante e rischiosa al tempo stesso. Affascinante perché in sintonia con questi tempi di attenzioni distratte e desiderosa di intercettare le mode senza esserne succube. Rischiosa perché l’eccessiva eterogeneità dell’offerta, se da un lato garantisce la possibilità di aprirsi a più fasce di pubblico, dall’altra si avventura in dedali labirintici tali da confondere le aspettative.

Ci-vita festival ha marciato bene su alcune realtà.
Gli incontri serali con Sabina Guzzanti, Paolo Rossi e Matteo Garrone, ad esempio, erano sulla carta estremamente intriganti nel loro ricercare il connubio con il nome di richiamo (se non altro i primi due, più vicini alla televisione, rispetto a un nome di puro cinema come quello del regista di Gomorra) e l’anima universitaria che poteva conferirgli Ferruccio Marotti che conduceva le interviste. Costruiti quasi come lezioni, con la forte presenza di materiale video, questi incontri erano racconti a tappe di carriere artistiche, ma anche spazi (i primi due) per improvvisazioni a soggetto di veri animali da palcoscenico.

Interessanti anche le scelte teatrali che hanno coinvolto due compagnie. La prima, il teatro Bertolt Brecht di Formia, con spettacoli pomeridiani, parate e improvvisazioni, ha aperto il festival e ha poi riempito di musica, canti e ancor più di “presenza” le vie troppo turistiche e spesso seriose del borgo, la seconda, la calabrese Confine incerto, ha invece proposto, più nascosto e quasi invisibile, un percorso sensoriale che si perdeva dentro la strada che, da dietro la piazza principale della chiesa di Civita, va a sperdersi nel nulla declinante dello scorcio forse più bello di tutto il paese.

Belle anche le riflessioni sul cibo che animavano, oltre i tanti momenti di degustazione, una mostra fotografica con scatti tratti dal cinema italiano in rapporto con la cucina, simpaticamente strutturata sugli spazi (la cucina, la tavola, le occasioni e via elencando) con vere e proprie chicche. Mostra che faceva il paio con la proiezione di Quando l’Italia mangiava in bianco e nero di Andrea Gopplero.
Tra questi momenti è da segnalare senz’altro la proposta di un documentario assai affascinante come Nuove Terre di Francesca Comencini e Fabio Pellarin che ha incontrato il pubblico in piazza per poi lasciare spazio alla videoproiezione in una sala un po’ scomoda, ma funzionale, all’interno del Museo delle Frane.

La musica, da parte sua, ha trovato spazio sin nella prima serata grazie alla voce e alle canzoni bellissime di Pilar capace di riempire di arguzie e poesia la fresca notte piena di luci e vento (reso protagonista dalla stessa cantante che lo evocava tra un brano e l’altro come vera e propria parte d’orchestra) di Civita.

Gli stand dello Street food , infine, erano dall’altra parte del ponte che unisce il cielo di Civita alla terra di Bagnoregio. Qui hanno trovato spazio anche incontri di un certo profilo enogastronomico tra cui, almeno sulla carta, sembrava estremamente interessante quello dell’aperitivo per bambini che era anche presentazione di un libro di Anna e Paolo Sarfatti. Dobbiamo dire “sembrava” perché la distanza tra le due anime e le due location del festival, benché non enorme, era comunque, piuttosto impervia e diventava virtualmente impossibile spostarsi dall’una all’altra per coprire tutto.
Ed è sicuramente questa una delle criticità da risolvere in un’eventuale seconda edizione del festival che, ci pare, dovrebbe, prima di tutto, trovare tra le troppe, spesso opposte esigenze (non ultima una senz’altro commerciale) una direzione più vera entro la quale segnare il suo nord e la sua direzione.


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